Ero appena arrivato dopo due mesi d’assenza, con un trolley pieno
di libri che non avrei letto e la musica nelle cuffione a scandire il trionfale
rientro, quando qualcosa o qualcuno mi venne addosso. Il mio tremulo impianto
sonoro venne scosso, e giusto il tempo di mugugnare in un “ou belin”, vidi che
era decisamente di più di un corpo non identificato, ma si trattava di lei, uno
dei tanti - che son sin troppo pochi - kulturmigranten che ho conosciuto in questi
anni di vita italotedesca. Lei, anche lei tornata a Tubinga. Lei, anche lei
alle prese con questa piccola città sveva per la “seconda volta”, con tutte le
idiosincrasie del caso. Con la familiarità e il “non è più come prima”, con il
piacere di ogni cosa al suo posto, e la volontà di prendere questo borgo di
marzapane per la collottola e strattonarlo un po’. Tubinga alla fine è un
paese, lo dicono anche i tedeschi che ci vivono. Un paese internazionale, dico
io, con un piccolo ossimoro. E io sono un ragazzo di paese internazionale, alla
fin fine. Come era Cesare Pavese. Che ben lo sapeva, anche lui. E di cui non mi
stancherò mai di citare una frase:
"Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di
andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente,
nelle piante, nella terra c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei
resta ad aspettarti".
Un paese, formato Campo Ligure, formato Genova Centro,
formato Tubinga, formato Jena, è lì, anche nel suo affaccendarsi, pieno di
vecchie facce, pieno di falsi sconosciuti che magari non saluti neanche, ma che
se incontrassi altrove sarebbe stupore e goffaggine, un ‘ciao’, un ‘hallo’
strozzato e timido che non potresti fare a meno di proferire… Queste
controfigure di sfondo sono molto di più di immagini in background. “Per me le vecchie facce sono Colonia, sono il mio poter dire: sono a casa” diceva Boll. E in effetti, il
kebabbaro che da quando arrivasti a Tubinga ora ne vedi i capelli virare alla
brizzolatura (e che già due anni fa, dopo una prima pausa italica, ti chiese, ‘dove
cacchio eri finito?’), il gonfio grembiuluto barista del pancadilegno che pare
Carletto Marx, il cingalese currywurstaro che esige la moneta immediatamente e
con occhio di gieco senza mai averti concesso un granello di mutuo
riconoscimento, tutti loro sono qualcosa di più di visi nella folla.
Per anni ho fantasticato la metropoli, l’avanguardia, la
vita che viene da te, con gruppi musicali famosi da e per quindici minuti,
ragazze dai capelli strani, la sensazione di vivere in un remake di e morì con
felafel in mano tra l’hippiecureo e il decadente und alles moeglich. Questo c’è
ancora, e ci sarà sempre. Sono le fantasticherie, le cazzate naif del ragazzo di
paese (dorfjung per dirla alla tedesca) che sono e sarò sempre. Anche con un
pizzico di fierezza. Egal se lo qualificano come ‘docente dell’università di
Jena’ e gli danno del Sie. Ma il dorfjung ha capito di essere tale ancora di
più attraverso quelle vecchie facce. E ha capito d’essere cresciuto. Sta a
vedere che s’è elevato a vecchietto di paese…
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