giovedì 17 luglio 2014

La città delle vecchie facce

Ero appena arrivato dopo due mesi d’assenza, con un trolley pieno di libri che non avrei letto e la musica nelle cuffione a scandire il trionfale rientro, quando qualcosa o qualcuno mi venne addosso. Il mio tremulo impianto sonoro venne scosso, e giusto il tempo di mugugnare in un “ou belin”, vidi che era decisamente di più di un corpo non identificato, ma si trattava di lei, uno dei tanti - che son sin troppo pochi -  kulturmigranten che ho conosciuto in questi anni di vita italotedesca. Lei, anche lei tornata a Tubinga. Lei, anche lei alle prese con questa piccola città sveva per la “seconda volta”, con tutte le idiosincrasie del caso. Con la familiarità e il “non è più come prima”, con il piacere di ogni cosa al suo posto, e la volontà di prendere questo borgo di marzapane per la collottola e strattonarlo un po’. Tubinga alla fine è un paese, lo dicono anche i tedeschi che ci vivono. Un paese internazionale, dico io, con un piccolo ossimoro. E io sono un ragazzo di paese internazionale, alla fin fine. Come era Cesare Pavese. Che ben lo sapeva, anche lui. E di cui non mi stancherò mai di citare una frase:

"Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti".

Un paese, formato Campo Ligure, formato Genova Centro, formato Tubinga, formato Jena, è lì, anche nel suo affaccendarsi, pieno di vecchie facce, pieno di falsi sconosciuti che magari non saluti neanche, ma che se incontrassi altrove sarebbe stupore e goffaggine, un ‘ciao’, un ‘hallo’ strozzato e timido che non potresti fare a meno di proferire… Queste controfigure di sfondo sono molto di più di immagini in background. “Per me le vecchie facce sono Colonia, sono il mio poter dire: sono a casa” diceva Boll. E in effetti, il kebabbaro che da quando arrivasti a Tubinga ora ne vedi i capelli virare alla brizzolatura (e che già due anni fa, dopo una prima pausa italica, ti chiese, ‘dove cacchio eri finito?’), il gonfio grembiuluto barista del pancadilegno che pare Carletto Marx, il cingalese currywurstaro che esige la moneta immediatamente e con occhio di gieco senza mai averti concesso un granello di mutuo riconoscimento, tutti loro sono qualcosa di più di visi nella folla.

Per anni ho fantasticato la metropoli, l’avanguardia, la vita che viene da te, con gruppi musicali famosi da e per quindici minuti, ragazze dai capelli strani, la sensazione di vivere in un remake di e morì con felafel in mano tra l’hippiecureo e il decadente und alles moeglich. Questo c’è ancora, e ci sarà sempre. Sono le fantasticherie, le cazzate naif del ragazzo di paese (dorfjung per dirla alla tedesca) che sono e sarò sempre. Anche con un pizzico di fierezza. Egal se lo qualificano come ‘docente dell’università di Jena’ e gli danno del Sie. Ma il dorfjung ha capito di essere tale ancora di più attraverso quelle vecchie facce. E ha capito d’essere cresciuto. Sta a vedere che s’è elevato a vecchietto di paese…

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