sabato 19 aprile 2014

Dio salvi il rigattiere di Jena!

Il negozio non ha un nome, men che meno un’insegna. Lo trovi in una via che più centrale di così si muore, all’incrocio con la biblioteca universitaria.
Fosse a Tubinga, sarebbe una nicchia di minorati minoritari. Un insulso, costosissimo, pretenziosissimo tempio del vintage. Uno di quei posti dove il gestore ti insegna a vivere, poiché è stato lontano, nello spazio e nel tempo, pur essendo entrato l’altro ieri negli –enta.
E invece no. Siamo a Jena. E quel negozio senza nome, men che meno un’insegna, non è l’ennesima trappola spennahipster. Ma è un ragionevole e dignitoso – leggasi, animale in via di estinzione – RIGATTIERE.
Cose prodotte all’epoca degli elmetti a punta prussiani, dei baffetti a francobollo e delle croci uncinate, e del martello e compasso al servizio di una compassata sudditanza sovietica, sono presenti in gran copia. Accatastate q.b. per destare l’istinto archeologico del canide collezionista in cercatore di ossi sepolti. Polverose q.b. da mostrare il corso del tempo, senza degenerare nella sagra dell’acaro. Economiche q.b. da poterti portare a casa senza farti troppi problemi un lembo di vite degli altri, e non solo dell’epoca di quel Le Vite Degli Altri.
E il gestore, poi. Nessuna barbetta con indosso il maglione appartenuto alla zia di George Harrison dopo il viaggio in India del nipote. Ma un loquace turingio alla soglia della settantina, uomo i cui occhi ridono da averci fatto le rughe, che viene fuori e ti accoglie, mentre suo figlio, dialetticamente burbero, resta schivo nel retrobottega. E l’esperienza. Di chi ti vende un piatto di porcellana MADE IN GERMAN DEMOCRATIC REPUBLIC e ti sa dire vita morte e miracoli della dittarella che lo produsse – soprattutto, ahimè, la morte. E che ti accartoccia premuroso ogni singolo pezzo in un foglio di giornale. E intanto ti istruisce su come far funzionare ancora oggi un lume a petrolio più vecchio di lui, della DDR, e forse anche dell’imbianchino austriaco. Che torni a casa, e scopri che funziona davvero.
Poi torni da lui, invece, ed è lui che ti saluta per primo. E ti chiede se i tuoi genitori hanno fatto buon viaggio tornando in Italia, con la stessa schiettezza e la stessa cura con cui ti incartava ogni singolo pezzo. E grazie al quale, tanto la lampada quanto te, vi potete sentire tutti e due un po’ più a casa. Lei su un comodino di un’abitazione costruita dopo la seconda guerra mondiale in un paese della Liguria, tu, nella stanza dal parquet scricchiolante in un palazzotto dove pare abbia vissuto duecentoanni fa un certo signor professor Schelling.
Dio, il WWF, Slow Food – insomma, chi volete – salvi il rigattiere di Jena!

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