Per anni ho vissuto in un piccolo paese dell’entroterra
ligure. Neanche quattordicenne, nel settembre del duemila, iniziavo a prendere
un autobus, che tutte le mattine mi avrebbe portato, pur con appena venti
chilometri di tratta, in un’altra regione. Il motivo era banale: andare a
scuola. Quel che non è banale affatto, in compenso, è qualcosa che allora non potevo
sapere. Ignoravo, in quel settembre del duemila, che la mia vita stava conoscendo
una svolta. Ero diventato un pendolare.
Il bus divenne treno, il treno si girò dall’altra parte, in
direzione di Genova, il treno divenne i treni, diversissimi treni presi per i motivi
più svariati – adolescenziali improbabili viaggi d’amore in solitaria a cavallo
di quattro regioni, una epica gita a Firenze con collasso del pantografo all’altezza
di Cà-di-Boschetti, improvvisate decisioni di salire nella grande Mediolanum
per vedere una mostra in solitaria – e infine i treni hanno varcato il confine
nazionale. In treno sono arrivato per la prima volta in Germania cinque anni
fa, portandomi quello che allora era “il mio tutto”, incapace di parlare la
lingua, ed anche di fare il biglietto.
Adesso, su internet, il biglietto lo faccio con scioltezza,
e trovo persino delle buone offerte. L’aereo si è affiancato con una certa
insistenza al suo anziano collega su rotaia, ed anche i check-in online sono
diventate formalità. Sono cambiati i mezzi, le mete, i motivi; la titubanza nel
muoversi è divenuta scaltrita prassi, e ormai risiedo a mille chilometri da dove
sono nato (e non c’è mese che non mi muova in qualche modo per tornare da
qualche parte che sento di chiamare “casa”). Quell'autobus del settembre duemila, che prendevo con riluttanza e fastidio tutte le mattine, era stato una sorta di presagio. Dieci anni dopo, sarei diventato un pendolare internazionale.
E se una cosa so, so che essere pendolare non è un fatto
neutro. Nella irripetibile voglia di vivere della triennale, il treno era la
metafora, fin troppo visibile, di ogni frustrazione. Il tasto che veniva
pigiato, e puntuale, al calar della sera, quando la Vita poteva dispiegarsi
pericolosa e incosciente, riavvolgeva il nastro, risospingendomi al punto di
partenza. Le 18 erano il limite invalicabile dell’esperienza vissuta. Già allora
il mio sentire era polare, e il treno era il vettore che univa e divideva due
mondi. Ma non c’era unità: solamente la dolorosa frammentarietà delle cose
lasciate a metà. Un conto alla rovescia sempre presente, più o meno latente, e
che non ti abbandona mai, domandandomi: come posso essere presente qui ed ora,
se so che tra quaranta minuti dovrò andare? - sviluppare una indomita (e
isterica) capacità di visitare tre uffici e quattro biblioteche differenti in
una mattinata - condividere l’esperienza del viaggio con una combriccola diventata
giorno dopo giorno sempre più affiatata - sono tutte cose che il cittadino
residente bellamente ignora.
La condizione pendolare impone e affina la logica dell’ottimizzazione,
senza che tu te ne accorga neanche. Offre insospettabili possibilità di
incontri, o se preferisci, di metterti in un angolo, e di avere ogni giorno una
buona oretta per te stesso.
Ma soprattutto, è una impareggiabile scuola di nostalgia.
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