domenica 13 aprile 2014

La condizione pendolare

Per anni ho vissuto in un piccolo paese dell’entroterra ligure. Neanche quattordicenne, nel settembre del duemila, iniziavo a prendere un autobus, che tutte le mattine mi avrebbe portato, pur con appena venti chilometri di tratta, in un’altra regione. Il motivo era banale: andare a scuola. Quel che non è banale affatto, in compenso, è qualcosa che allora non potevo sapere. Ignoravo, in quel settembre del duemila, che la mia vita stava conoscendo una svolta. Ero diventato un pendolare.
Il bus divenne treno, il treno si girò dall’altra parte, in direzione di Genova, il treno divenne i treni, diversissimi treni presi per i motivi più svariati – adolescenziali improbabili viaggi d’amore in solitaria a cavallo di quattro regioni, una epica gita a Firenze con collasso del pantografo all’altezza di Cà-di-Boschetti, improvvisate decisioni di salire nella grande Mediolanum per vedere una mostra in solitaria – e infine i treni hanno varcato il confine nazionale. In treno sono arrivato per la prima volta in Germania cinque anni fa, portandomi quello che allora era “il mio tutto”, incapace di parlare la lingua, ed anche di fare il biglietto.
Adesso, su internet, il biglietto lo faccio con scioltezza, e trovo persino delle buone offerte. L’aereo si è affiancato con una certa insistenza al suo anziano collega su rotaia, ed anche i check-in online sono diventate formalità. Sono cambiati i mezzi, le mete, i motivi; la titubanza nel muoversi è divenuta scaltrita prassi, e ormai risiedo a mille chilometri da dove sono nato (e non c’è mese che non mi muova in qualche modo per tornare da qualche parte che sento di chiamare “casa”). Quell'autobus del settembre duemila, che prendevo con riluttanza e fastidio tutte le mattine, era stato una sorta di presagio. Dieci anni dopo, sarei diventato un pendolare internazionale.
E se una cosa so, so che essere pendolare non è un fatto neutro. Nella irripetibile voglia di vivere della triennale, il treno era la metafora, fin troppo visibile, di ogni frustrazione. Il tasto che veniva pigiato, e puntuale, al calar della sera, quando la Vita poteva dispiegarsi pericolosa e incosciente, riavvolgeva il nastro, risospingendomi al punto di partenza. Le 18 erano il limite invalicabile dell’esperienza vissuta. Già allora il mio sentire era polare, e il treno era il vettore che univa e divideva due mondi. Ma non c’era unità: solamente la dolorosa frammentarietà delle cose lasciate a metà. Un conto alla rovescia sempre presente, più o meno latente, e che non ti abbandona mai, domandandomi: come posso essere presente qui ed ora, se so che tra quaranta minuti dovrò andare? - sviluppare una indomita (e isterica) capacità di visitare tre uffici e quattro biblioteche differenti in una mattinata - condividere l’esperienza del viaggio con una combriccola diventata giorno dopo giorno sempre più affiatata - sono tutte cose che il cittadino residente bellamente ignora.
La condizione pendolare impone e affina la logica dell’ottimizzazione, senza che tu te ne accorga neanche. Offre insospettabili possibilità di incontri, o se preferisci, di metterti in un angolo, e di avere ogni giorno una buona oretta per te stesso.

Ma soprattutto, è una impareggiabile scuola di nostalgia.

Nessun commento:

Posta un commento