mercoledì 5 marzo 2014

La Grande Bellezza, ovvero del ROMANTICIniSMO

La Grande Bellezza é un film sulla nostalgia. La bellezza è qui cercata, non trovata, ma soprattutto rimpianta. Colui che sarebbe diventato il re dei mondani, il sornione scrittore e giornalista partenopeo Jep Gambardella, non cerca altro, in fondo, che la grande bellezza del suo primo amore. Al pari di un’innocenza che é, alla Balzac, inesorabilmente perduta, la grande bellezza non si lascia trovare, e viene surrettiziamente compensata dal sarcasmo festaiolo acquisito in società. Con i suoi trenini “che non vanno da nessuna parte”, la società è qui il grande teatrino del mondo, in cui ognuno, ça va sans dire, recita una parte. Chi non l’accetta può persino darsi la morte, e chi ne è consapevole, non per questo smette di recitare (soprattutto al suo funerale). Alla grande bellezza corrisponde la grande bruttura di chi, parafrasando una nota riflessione di Dostoevskij, è più consapevole di tutti gli altri, e, proprio per questo, più colpevole. La Grande Bellezza è un film sulla naturalezza e sull’artificio, sull’insincerità di relazioni interumane basate su ruoli che ci scegliamo e che più spesso ci vengono assegnati. È una satira irridente che non risparmia niente e nessuno: gli intelligenti e gli stolti, soprattutto i primi; il clero e i santi, soprattutto, nuovamente, i primi. È un film dove il pianto diviene riso e la disperazione ironia. La Grande Bellezza si condensa nella sentenza di Falstaff: “tutto nel mondo è burla”. Ma ciò che bellezza è, è proprio ciò che alla onnicomprensiva burla del “blablabla” si sottrae.
La Grande Bellezza è un film eccessivo. Eccessiva la villa vista Colosseo proprietà di chi in tutta la vita ha scritto un libro perché preferiva uscire la sera (a differenza di Proust); eccessivi i fenicotteri Dadaeggianti; eccessivo il passare dalle litanie sacre a “a far l’amore comincia tu” senza soluzione di continuità (ma che potenza!); eccessivi i dialoghi, dove ogni volta che Jep apre bocca sta per pronunciare un aforisma memorabile. Ed eccessiva è pure la fotografia, dove non c’è fotogramma che non sia curato al millimetro, sia esso un novello Inferno Musicale di H. Bosch (i party a villa Gambardella questo sono), sia esso un tenue acquarello impressionista della Città Eterna (ah, placidi, interminabili titoli di coda). Ma ben venga un tripudio di show-off di intelligenza nella sceneggiatura e un esubero di tecnica nell’uso della macchina da presa, se l’alternativa è la banalità senza traccia alcuna di bellezza cui siamo mestamente abituati, ogni giorno di più.
La Grande Bellezza è un film corale. Ogni singolo personaggio che ne calca la scena è perfettamente al suo posto, ed esprime una modalità dello stare al mondo, sia esso un invecchiato ragazzone di paese, vittima sacrificale per vocazione (Verdone) o una invecchiata ragazzona spogliarellista insospettabilmente saggia (Ferilli), per non parlare di cardinali sensibili più al coniglio alla ligure che all’esperienza dello spirito, nobili in disgrazia che offronsi a noleggio, vicini di casa malavitosi esperti di sartoria di pregio, industriali di giocattoli libidinosi villani rifatti e finiti (ma non per questo peggiori di sedicenti intellettuali di partito millantatori di ideali etici) e chi più ne ha più ne metta nel grande baraccone del circo, ehm, teatro del mondo. Personaggi come questi, più che la languida cornice romana, e la reductio ad Fellinim del suo blasè protagonista, ci ricordano che La Grande Bellezza è un film assolutamente italiano.
La Grande Bellezza è una finestra aperta sul nostro mondo, anche se il mondo che mostra è chiaramente un mondo privilegiato ed elitario. Ma se non tutti possono partecipare nella vita a sfrenati party con vista Colosseo, molti potranno essere sensibili all’amara verità per cui se nasci romantico, spesso muori cinico (ma non per questo puoi dismettere del tutto il tuo romanticismo innato, e proprio qui sta il dolore). Una verità amara come le radici, unico cibo di cui si nutre suor Maria, anzi, La Santa. Che non a caso apre bocca solo per ricordarci come “le radici sono importanti”. Che una simile affermazione porti con sé la redenzione dal blablabla o sia il suo estremo sberleffo, è questione aperta.

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