venerdì 20 settembre 2013

post-ospite

Le colonne di Cazzate Naif sono liete di ospitare un brano tratto da "Stalle", raccolta di racconti (imminente è la pubblicazione) del mio caro amico Lorenzo Cibrario:


"…M. poteva parlare di se stessa per ore, ma più correttamente si sarebbe dovuto dire che M. avesse parlato di sé da tutta la vita. Da quando l'avevo conosciuta aveva soltanto parlato di sé. I monologhi sono già noiosi, a meno che tu non sia Pirandello, ma un monologo interiore ambulante è quanto di più nauseante possa esistere. Purtroppo M. aveva deciso di condividere questa incessante cronaca mentale con gli altri, non si capiva in virtù di quale motivo. Se lei avesse voluto consigli sarebbe stata l'ipotesi più logica, ma invece no: M. voleva che la si ascoltasse mentre analizzava tutti i singoli processi cognitivi della propria mente, che la si ascoltasse scavare in ogni più piccolo e recondito malessere della propria coscienza senza permettersi di avanzare interpretazioni (mai, dico MAI tirare in ballo Freud in sua presenza) e che si plaudisse il perpetuo squadernamento dei banalissimi aneddoti della sua infanzia. Così, come in una variante ancora più sadica della celeberrima cura Ludovico, si doveva stare immobili, in silenzio, offrendole sigarette e cibarie, ad annuire per ogni singolo aneddoto degli ultimi trentanove anni della sua miserabile e tormentata esistenza. Povera M., povera ragazza, prego tieni la sigaretta. Sì, lo so che hai smesso di fumare. Sì, sono anni che fumi le mie. Chiaro, chi ha smesso di fumare fuma le mie. Come dici? Vuoi un caffè? Ordinalo. Ah sì, certo. Non hai soldi. Non ti preoccupare, pago io.
Questo perché nessun altro essere umano riesce veramente a comprenderla, nessuno conosce il Golgotha di disperazione in cui il suo animo è imprigionato, il sentimento di mortificazione da lei provato non è pari a nulla nel mondo, il resoconto del suo malessere romantico è totalmente incomprensibile per l'ascoltatore, ottuso davanti al quotidiano orrore di cui è vittima. La depressione di cui è schiava le impedisce ogni più piccola gioia, ma deve trovare un testimone per tentare di squarciare questo velo che altrimenti le farebbe vivere la vita di un invertebrato.
 Un'esistenza travagliata alla quale niente e nessuno poteva dare sollievo. Sin da quando era adolescente il dramma l'aveva perseguitata senza sosta in una sofferente e melo processione all'insegna del pianto. Nulla infatti aveva lenito il dolore di M.: a Firenze, a New York, a Roma, a Milano e ora a Londra. Sembrava che la sfortuna la seguisse arrivando forse a reificarsi in lei stessa, cosa che nessun altro essere vivente avrebbe potuto comprendere, a meno di non essere M..
Dopo anni di sofferenze a Genova, notoriamente città crudele e violenta, era riuscita a piangere fino a Firenze dove studiava all'Accademia di Belle Arti grazie alla glaciale famiglia che le pagava l'affitto e l'università. Seguire quell'accademia in quella città non dev'essere stato semplice per la povera M.. Che orrendo sito! E che facoltà precaria si era scelta! Che coraggio seguire gli studi artistici nel capoluogo toscano.
Anni bui e difficili.
Dipingere e/o fare la fotografa erano sempre stati il suo sogno, ovvero due professioni non esattamente semplici da perseguire, ma M. era cocciuta come nessun altro al mondo, si era sempre dedicata anima e cuore al raggiungimento di questo fine, riuscendoci in parte, ma sottostimandosi così tanto da non utilizzare i risultati ottenuti come basi su cui crescere, ma come peccati da nascondere. Ogni afflato artistico di M. veniva chirurgicamente disintegrato da lei stessa, inseguendo un'ideale poetico ed estetico così mutevole da non sapere manco lei cosa stesse davvero perseguendo: l'essere qualcuno sorpassava l'idea di fare qualcosa e rendendo vano ogni sforzo, perché indirizzato verso una forma e non verso una sostanza.
Le giornate trascorrevano con coinquilini orribili, rei di non comprendere fino in fondo il Male che provava, incapaci di stringersi attorno a lei con quotidiana frequenza in modo da lenire questo violento senso di oppressione 24/7, localizzato proprio intorno alla periferia nord ovest del cuore. Le loro felicità, i loro sorrisi erano affronti che sfacciatamente indirizzavano a lei e alla sua condizione miserabile: come potevano andare alle feste, fumare canne in piazza nelle sere d'estate e proseguire la propria vita mentre lei soffriva in tal modo? Tanta indifferenza poteva avere solo una spiegazione: dissimulavano l'invidia per la sua condizione di unicità. Nei pensieri di M. il soggetto di ogni enunciato era sempre lo stesso e gli altri dovevano per forza essere gelosi del male che lei portava con e in sé. Come una specie di Sigourney Weaver in Alien, M. procedeva secondo questo movimento ondulatorio di attrazione e repulsione verso il male che portava in cuore: non riusciva a staccarsene diventando lei stessa il male che la stava distruggendo, il tutto amplificandolo e condividendolo come un enorme social network del dolore, come se usasse gli enunciati degli status di facebook come analisi".


1 commento:

  1. "Ogni afflato artistico di M. veniva chirurgicamente disintegrato da lei stessa, inseguendo un'ideale poetico ed estetico così mutevole da non sapere manco lei cosa stesse davvero perseguendo: l'essere qualcuno sorpassava l'idea di fare qualcosa e rendendo vano ogni sforzo, perché indirizzato verso una forma e non verso una sostanza". Splendidamente articolato. Belin, mi sembra di vedermi allo specchio!

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