"…M. poteva parlare di se stessa per
ore, ma più correttamente si sarebbe dovuto dire che M. avesse parlato di sé da
tutta la vita. Da quando l'avevo conosciuta aveva soltanto parlato di sé. I
monologhi sono già noiosi, a meno che tu non sia Pirandello, ma un monologo
interiore ambulante è quanto di più nauseante possa esistere. Purtroppo M.
aveva deciso di condividere questa incessante cronaca mentale con gli altri,
non si capiva in virtù di quale motivo. Se lei avesse voluto consigli sarebbe
stata l'ipotesi più logica, ma invece no: M. voleva che la si ascoltasse mentre
analizzava tutti i singoli processi cognitivi della propria mente, che la si
ascoltasse scavare in ogni più piccolo e recondito malessere della propria
coscienza senza permettersi di avanzare interpretazioni (mai, dico MAI tirare
in ballo Freud in sua presenza) e che si plaudisse il perpetuo squadernamento
dei banalissimi aneddoti della sua infanzia. Così, come in una variante ancora
più sadica della celeberrima cura Ludovico, si doveva stare immobili, in
silenzio, offrendole sigarette e cibarie, ad annuire per ogni singolo aneddoto
degli ultimi trentanove anni della sua miserabile e tormentata esistenza.
Povera M., povera ragazza, prego tieni la sigaretta. Sì, lo so che hai smesso
di fumare. Sì, sono anni che fumi le mie. Chiaro, chi ha smesso di fumare fuma
le mie. Come dici? Vuoi un caffè? Ordinalo. Ah sì, certo. Non hai soldi. Non ti
preoccupare, pago io.
Questo perché nessun altro essere umano
riesce veramente a comprenderla, nessuno conosce il Golgotha di disperazione in
cui il suo animo è imprigionato, il sentimento di mortificazione da lei provato
non è pari a nulla nel mondo, il resoconto del suo malessere romantico è
totalmente incomprensibile per l'ascoltatore, ottuso davanti al quotidiano
orrore di cui è vittima. La depressione di cui è schiava le impedisce ogni più
piccola gioia, ma deve trovare un testimone per tentare di squarciare
questo velo che altrimenti le farebbe vivere la vita di un invertebrato.
Un'esistenza travagliata alla quale
niente e nessuno poteva dare sollievo. Sin da quando era adolescente il dramma
l'aveva perseguitata senza sosta in una sofferente e melo processione
all'insegna del pianto. Nulla infatti aveva lenito il dolore di M.: a Firenze,
a New York, a Roma, a Milano e ora a Londra. Sembrava che la sfortuna la
seguisse arrivando forse a reificarsi in lei stessa, cosa che nessun altro
essere vivente avrebbe potuto comprendere, a meno di non essere M..
Dopo anni di
sofferenze a Genova, notoriamente città crudele e violenta, era riuscita a
piangere fino
a Firenze dove studiava all'Accademia di Belle Arti grazie alla glaciale
famiglia che le pagava l'affitto e l'università. Seguire quell'accademia
in quella città non dev'essere stato semplice per la povera M.. Che
orrendo sito! E che facoltà precaria si era scelta! Che coraggio seguire gli
studi artistici nel capoluogo toscano.
Anni bui e difficili.
Dipingere e/o fare la fotografa erano
sempre stati il suo sogno, ovvero due professioni non esattamente semplici da
perseguire, ma M. era cocciuta come nessun altro al mondo, si era sempre
dedicata anima e cuore al raggiungimento di questo fine, riuscendoci in parte,
ma sottostimandosi così tanto da non utilizzare i risultati ottenuti come basi
su cui crescere, ma come peccati da nascondere. Ogni afflato artistico di M.
veniva chirurgicamente disintegrato da lei stessa, inseguendo un'ideale poetico
ed estetico così mutevole da non sapere manco lei cosa stesse davvero
perseguendo: l'essere qualcuno sorpassava l'idea di fare qualcosa e rendendo
vano ogni sforzo, perché indirizzato verso una forma e non verso una sostanza.
Le giornate trascorrevano con
coinquilini orribili, rei di non comprendere fino in fondo il Male che provava,
incapaci di stringersi attorno a lei con quotidiana frequenza in modo da lenire
questo violento senso di oppressione 24/7, localizzato proprio intorno alla
periferia nord ovest del cuore. Le loro felicità, i loro sorrisi erano affronti
che sfacciatamente indirizzavano a lei e alla sua condizione miserabile: come
potevano andare alle feste, fumare canne in piazza nelle sere d'estate e
proseguire la propria vita mentre lei soffriva in tal modo? Tanta
indifferenza poteva avere solo una spiegazione: dissimulavano l'invidia per la
sua condizione di unicità. Nei pensieri di M. il soggetto di ogni
enunciato era sempre lo stesso e gli altri dovevano per forza essere gelosi del
male che lei portava con e in sé. Come una specie di Sigourney Weaver in
Alien, M. procedeva secondo questo movimento ondulatorio di attrazione e
repulsione verso il male che portava in cuore: non riusciva a staccarsene
diventando lei stessa il male che la stava distruggendo, il tutto
amplificandolo e condividendolo come un enorme social network del dolore, come
se usasse gli enunciati degli status di facebook come analisi".
"Ogni afflato artistico di M. veniva chirurgicamente disintegrato da lei stessa, inseguendo un'ideale poetico ed estetico così mutevole da non sapere manco lei cosa stesse davvero perseguendo: l'essere qualcuno sorpassava l'idea di fare qualcosa e rendendo vano ogni sforzo, perché indirizzato verso una forma e non verso una sostanza". Splendidamente articolato. Belin, mi sembra di vedermi allo specchio!
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