domenica 9 giugno 2013

Il senso della possibilità (le vite degli altri)

Ciò che (in) me aveva sempre bruciato era ed è il senso della possibilità. Il fatto che ogni cosa, ogni cosa sia, possa essere satura di significati, di vita. Un corso di disegno, cosa di cui sono assolutamente incapace, che si svolge al martedì sera nell’ultimo piano della sede dell’università, in un angolo che immagini buio e decadente; un posto in Texas dove pagando venti dollari puoi mangiare una bistecca da due chili seduto in un tavolo dove sei sotto lo sguardo di tutti (e se la finisci è gratis); le luci accese in una casetta tedesca, che portano un giallo domestico dove si svolge, anche lì, già lì, la vita. 
Un tutto ribollire di vita, vita dappertutto, vita che si dà in infinite possibilità. 
Tutto questo può sembrare estremamente naif, postulare una bellezza, una pienezza, una gioia, laddove probabilmente il corso di disegno sarà tenuto da un insegnante svogliato e frustrato, il locale texano sarà una immagine della società esibizionista e stupida in cui ci è dato di vivere, e le persone che vivono in quella casa saranno annoiate se non infelici, cercheranno ogni giorno di ammazzare la vita poco per volta, senza rendersene conto. 
Il possibile è una promessa di felicità forse, una promessa di pienezza, una pienezza che sola sa esserci tra noi e il mondo, e per la quale abbiamo bisogno del mondo. Una pienezza che solo essendo in situazione possiamo ricevere, come un dono. E allora ogni situazione diviene preziosa, ogni situazione diventa un appuntamento ed un appello. Ogni treno può essere il nostro treno: ogni giorno cinquanta treni passano per la città di Tubinga collegandola con non so quante stazioni che si collegano con non so quante stazioni ancora. Dove vorresti andare? 
Senza temere di sembrare ingenuo utilizzando questa parola tanto roboante e tremenda, il senso della possibilità è davvero il senso dell’infinito, di una creazione sempre aperta, di un mondo sempre nuovo, di un giorno sempre nuovo che è il primo giorno del resto della tua vita, che è il primo giorno, che non si sa cosa potrà portarti, se tu sarai disposto ad accoglierlo. Ma non senti in tutto questo l’ansia, la responsabilità come nei confronti di una vita appena nata? 
Fattori di ogni tipo impediscono di accogliere tutto ciò che la possibilità può offrire: gli orari in cui si incanala la nostra vita, fatta di orari di lavoro e di uffici, orari di biblioteche e di ricevimenti, orari per cenare e orari per incontrarsi con gli amici. Non è un male questo. Senza questo ingranaggio, il senso della possibilità ci arderebbe vivi: il senso della possibilità, che è eco di un tutto che aneliamo a farsi presente, di fatto sarebbe il nulla, il vuoto, uno spazio vuoto per un evento che sceglie lui di darsi. E una vita sotto il solo segno della possibilità, di una ricettività che non ha nulla che la costringa ad assumersi una forma, sarebbe una vita piena di momenti in cui coricato sul letto guardi il soffitto aspettando che qualcosa o qualcuno ti mostri la via. Oppure, ti getteresti nel turbinio del tutto, sempre con la sensazione che ogni ‘cosa’ che altri fanno è possibilità sorgiva che ti precludi: danza scozzese, storia della Germania nel secondo dopoguerra, come fare il cioccolato in casa. 

Ma il senso della possibilità porta con sé altri suoi parenti, più o meno prossimi. Da bambino, andavo in un bar del mio paese con la mia mamma, e guardando il barista pensavo: ecco, lui è il Barista. È grassottello e simpatico, il suo grembiule blu gli sta proprio bene, è il Barista. Potrò essere barista io? No. Non perché non fossi grassottello e simpatico, non perché non avessi un grembiule blu, non bisognava per forza essere così. Ma c’era qualcosa in lui che lo rendeva Barista. C’erano altri bar in cui andavo, e tutti erano baristi, anzi Baristi. Qualcosa li rendeva tali. Mai più avrei pensato che anni dopo, portando un semplice curriculum, riempendo alcuni moduli, sostenendo una breve conversazione, sarei diventato anch’io barista. O meglio, barista con la b minuscola per me, era così semplice, la realtà non era mica una idea. La realtà era la realtà, fatta di moduli, colloqui e strette di mano più o meno sincere. Ma son sicuro che se sdoppiandomi il bambino di allora avesse visto il barista (con la b minuscola) di adesso, avrebbe visto un Barista. Avrebbe visto un’idea. 
E adesso? Tutto continua a dover essere un’idea, ed è bellissimo, ma anche tremendo. La candela che devo comprare è abbastanza Candela? L’auto che devo comprare. Immagino un ragazzo, anzi è già un Ragazzo, sfogliare una rivista (una Rivista) e considerare vari elementi: quanta benzina consuma, il design, il prezzo e via dicendo. Quindi, decide. Io guardo la stessa rivista, e penso che da qualche parte ci deve essere un’Auto. È tremendo. Così come non esiste “L’Erasmus”, “La Vita”, “L’Amore”, ma esiste tutto ciò che un periodo di studio all’estero comporta, nelle sue singole parti che vanno dal festeggiare ogni maledetta sera (oppure no) a stirarti le mutande per la prima volta (oppure no); esiste tutta una serie di cose che succedono mentre sei impegnato a fare altro (come diceva John Lennon), ed esiste (o così dicono, vale la pena sperare comunque – o no) qualcosa che dovrebbe stare tra due persone che tra loro stanno. Già, la realtà. E sono sicuro che molti di voi vivono nella realtà, più o meno con tranquillità e piacere. 
Ma come la mettiamo col senso della possibilità? Chi nasce con l’ipertrofia del senso della possibilità, difficilmente potrà avere il senso della realtà. Qualcosa del genere diceva anche Robert Musil: si diventa ‘uomini senza qualità’, ovvero, che le hanno ‘potenzialmente’ tutte. Chi nasce col senso della possibilità saprà benissimo che si va alle feste, si stirano mutande, si fanno tante cose. Ma solo quando dimenticherà di essere a una Festa, di Stirare le Mutande, e di fare delle Cose (sebbene ne faccia già moltissime) starà davvero vivendo, sarà davvero cioè nella realtà. Solo quando non sai di essere a una Festa, sei ad una festa. Pensate a capodanno. Quanti di voi si annoiano perché lo fan diventare Capodanno? 
Ma non è tutto. Il senso della possibilità, che dovrebbe essere linfa vitale capace di rendere gli occhi sempre gonfi di stupore ed al riparo dalla consunzione della noia, diventa un punto di fuga all’infinito, un infinito che non si compie mai, o, come qualcuno diceva, “un imperfetto che non si compie mai”. La realtà c’è, quando non c’è il respiro, il sospiro, il fremito (sempre –troppo- affannoso – l’affanno di ogni rincorsa, di ogni vigilia) della possibilità, per non dire della idealità. 
Aprirsi a quella situazione unica, irripetibile, inedita e che non sarà mai più. Gustarla, attraversarla, goderla, senza pensare a tutte le altre da cui ci separiamo, e che contemporaneamente sono più o meno in atto. 
Mentre io sono nella mia cucina a Tubinga alle ore 20.40 di una domenica sera di metà novembre (a scrivere della possibilità!), altre luci sono accese nelle cucine, e la gente mangia; per strada, passano un cane e un suo padrone, e presto lui raccoglierà qualcosa; le luci nelle camere si accendono una dopo l’altra: tentativi disperati di studio attendono un esame già alle porte, oppure contatti telematici con amici vicini e lontani, con commozione o con noia; oppure ancora –e rubo questa immagine ad un film che amo come nessun’altro- svariate coppie stanno avendo un orgasmo. 

Novembre 2009

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