martedì 21 maggio 2013

sono un ligure (la vita ruvida)


Sono un ligure. E come tale so che per far crescere una piantina di pomodori ci vuole molta dedizione e impegno. Occorre sforzarsi e forzare il territorio a collaborare, armarsi prima di tutto di pazienza e rendere abitabile l’impervio. Non conosco la pianura, se non attraverso il mio cugino più prossimo, il Piemonte. Sono un ligure. Ho potuto comprendere che “pianura” e “bosco”, boschi pianeggianti possono esistere dopo un quarto di secolo che sono al mondo. Sono uso a vivere nell’intermezzo, nell’intercapedine, nello strozzamento. Nell’avvallamento, nella gola, nel dirupo. In stretti spazi in cui si passa repentinamente dalla luce all’ombra, dai crinali di montagne scottate dal sole all’odore del mare. Non conosco immense distese di prati fioriti, ma la linea dell’orizzonte che si perde fino a trascolorare, quella sì. Sono un ligure, e con una geografia di questo tipo  non dovete stupirvi della mia storia. Una vita ruvida. Dove l’inospitale è il presupposto, e la sopravvivenza è spesso lo stato mentale. Con tutte le sue conseguenze. La sensazione di vivere ‘malgrado’, ‘a discapito di’. Come quella piantina di pomodori. Che cresce mezza storta in un colle terrazzato e sbilenco, ma che produce frutti ineguagliabili. Non c’è un entusiasmo dagli occhi gonfi per chi viene da una simile terra. C’è, dinnanzi a sé, una bellezza sgomentante, inabitabile, inumana. Una bellezza che sovrasta, una bellezza non accogliente. Non gestibile. Non antropizzabile. Forse è per questo che noi liguri siamo un popolo di solitari. Di poeti. Di anime che hanno “l’incartocciarsi della foglia riarsa” dentro di sé. Taciturni e aspri. Ma per questo capaci di evitare certe fregature. Diffidenti, ma soprattutto nei confronti di certi miti. Col ‘maniman’ sempre fra i denti. In un simile territorio, il mito del successo non può penetrare. E infatti a certi suoi profeti non abbiamo mai abboccato. Altri profeti, dalla testa ugualmente calva, alcuni decenni prima, li abbiamo cacciati a calci nel sedere. Sebbene noi liguri ci pensiamo due volte prima di intraprendere qualunque cosa, troppo consapevoli e crucciati dei rischi che l’agire in quanto tale comporta, lì non abbiamo esitato. Se la nostra città è chiamata ‘Superba’, posso in parte capirlo. Sebbene abbiamo sfidati oceani che i cartografi ci garantivano infestati di mostri scoprendo per errore nuovi continenti, oggi abbiamo quasi paura ad affacciarci sul Mare che da secoli è Nostrum più che di chiunque altro. ‘Superba’. Dev’essere quel tipico fraintendimento per cui un'attitudine schiva e silenziosa viene presa per alterigia. Non è un confidare smodato nel proprio valore. È la consapevolezza del nullo fondamento di ogni convinzione che ci fa parere tali. Per questo siamo così dotati di ironia. Agiamo come un solvente nei confronti di ogni cosa che suoni troppo bene. Per istinto. Ma il risultato è che oggi il mondo, una scheggia impazzita dove tutto soggiace all’imperativo del fare e del profitto, di un credere perché così si fa di più, ci sta surclassando. Stiamo soccombendo, pare. Container e container - e sono sin meno di un tempo - arrivano ogni giorno portando merci prodotte in luoghi lontani. La sorte, unica più ironica di noi, le cala nel nostro porto. Ma le piantine di pomodori continueranno a crescere, tanto più sghimbesce e sbilenche quanto più i loro frutti saranno pieni di vita e succosi.

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