Sono un ligure. E come tale so che
per far crescere una piantina di pomodori ci vuole molta dedizione e impegno. Occorre
sforzarsi e forzare il territorio a collaborare, armarsi prima di tutto di
pazienza e rendere abitabile l’impervio. Non conosco la pianura, se non attraverso
il mio cugino più prossimo, il Piemonte. Sono un ligure. Ho potuto comprendere
che “pianura” e “bosco”, boschi pianeggianti possono esistere dopo un quarto di
secolo che sono al mondo. Sono uso a vivere nell’intermezzo, nell’intercapedine,
nello strozzamento. Nell’avvallamento, nella gola, nel dirupo. In stretti spazi
in cui si passa repentinamente dalla luce all’ombra, dai crinali di montagne
scottate dal sole all’odore del mare. Non conosco immense distese di prati
fioriti, ma la linea dell’orizzonte che si perde fino a trascolorare, quella
sì. Sono un ligure, e con una geografia di questo tipo non dovete stupirvi della mia storia. Una vita
ruvida. Dove l’inospitale è il presupposto, e la sopravvivenza è spesso lo
stato mentale. Con tutte le sue conseguenze. La sensazione di vivere ‘malgrado’,
‘a discapito di’. Come quella piantina di pomodori. Che cresce mezza storta in
un colle terrazzato e sbilenco, ma che produce frutti ineguagliabili. Non c’è
un entusiasmo dagli occhi gonfi per chi viene da una simile terra. C’è, dinnanzi
a sé, una bellezza sgomentante, inabitabile, inumana. Una bellezza che
sovrasta, una bellezza non accogliente. Non gestibile. Non antropizzabile. Forse
è per questo che noi liguri siamo un popolo di solitari. Di poeti. Di anime che
hanno “l’incartocciarsi della foglia riarsa” dentro di sé. Taciturni e aspri. Ma
per questo capaci di evitare certe fregature. Diffidenti, ma soprattutto nei
confronti di certi miti. Col ‘maniman’ sempre fra i denti. In un simile territorio,
il mito del successo non può penetrare. E infatti a certi suoi profeti non
abbiamo mai abboccato. Altri profeti, dalla testa ugualmente calva, alcuni
decenni prima, li abbiamo cacciati a calci nel sedere. Sebbene noi liguri ci
pensiamo due volte prima di intraprendere qualunque cosa, troppo consapevoli e
crucciati dei rischi che l’agire in quanto tale comporta, lì non abbiamo
esitato. Se la nostra città è chiamata ‘Superba’, posso in parte capirlo. Sebbene
abbiamo sfidati oceani che i cartografi ci garantivano infestati di mostri
scoprendo per errore nuovi continenti, oggi abbiamo quasi paura ad affacciarci
sul Mare che da secoli è Nostrum più che di chiunque altro. ‘Superba’. Dev’essere
quel tipico fraintendimento per cui un'attitudine schiva e silenziosa viene presa
per alterigia. Non è un confidare smodato nel proprio valore. È la
consapevolezza del nullo fondamento di ogni convinzione che ci fa parere tali. Per
questo siamo così dotati di ironia. Agiamo come un solvente nei confronti di
ogni cosa che suoni troppo bene. Per istinto. Ma il risultato è che oggi il
mondo, una scheggia impazzita dove tutto soggiace all’imperativo del fare e del
profitto, di un credere perché così si fa di più, ci sta surclassando. Stiamo soccombendo,
pare. Container e container - e sono sin meno di un tempo - arrivano ogni giorno portando merci prodotte in luoghi lontani. La sorte, unica più ironica di noi, le cala nel
nostro porto. Ma le piantine di pomodori continueranno a crescere, tanto più sghimbesce
e sbilenche quanto più i loro frutti saranno pieni di vita e succosi.
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