Quando venni qui a Tubinga nell’ormai lontano autunno del duemilanove
avevo gli occhi gonfi di stupore. Non avevo mai vissuto da solo, non avevo mai
vissuto all’estero, non avevo mai vissuto in un centro urbano definibile come
città. Durante quel primo anno vissi come un erasmino qualunque, nei party d’appartamento
e nei locali giovanilisti studentoidi. Una campana di vetro nella campana di
vetro, ma era giusto così. La cosa che mi avrebbe deluso maggiormente sarebbe
stata una cappa di conformismo easy borghese, una pasoliniana americanizzazione
urbi et orbi. Conobbi ragazzi del Brasile equatoriale e dell’arco vulcanico
nipponico, polacchi e cosacchi, romani e rumeni. Ma tutti (o quasi) ballavano
sulle note di david guetta, sculettando al suono della sua immortale sexy
bitch. Mi divertivo a dimenarmi su quei plasticosi motivetti pop, ma raramente
superavo la soglia del farfintadiesseresano. La stragrande maggioranza dei
colleghi erasmi, soprattutto quelli dei primi mesi, parevano turisti ad
eurodisney, felici e sorridenti. Non c’era nulla delle preoccupazioni esistenziali
e delle vertiginose meditazioni da pallido plenilunio di cui gli anni genovesi
mi fecero dono. A tratti, anche fardello. Ben presto questa illogica allegria
ben poco gaberiana mi venne a noia. Tra i pochi che bucavano la bolla di vetro
a due strati c’erano Guy Levante Patterson II e Vera. Guy Levante Patterson II,
oltre all’impegnativo nome che occupava un’intera colonna di giornale era un
afroamericano munito di treccine occhiali grossi e un eccellente talento
fotografico. Trasudava fuliggine e mondo esterno. Vera era una ragazza verso
cui nutrii qualcosa di più che una simpatia, e stranamente anche lei. I due parlavano
una sera e a un certo punto lei se ne uscì con una frase che mi ricordo ancora questa
sera. ‘è così bello parlare con te, di dove vivi e tutto quanto, sai, io sono
soltanto una dorfmadchen’. ovvero, ragazza di paese. Improvvisamente capii.
quello lo ero anch’io (dorfjung al maschile), e niente e nessuno me lo avrebbe
potuto togliere, neppure io, nemmeno impegnandomi strenuamente. Per un po’ lo
vidi come un limite, e fui schiavo del mito del fare esperienza che ora spesso
esecro. Poi mi resi conto che quello stupore, quel senso della possibilità, e
anche, più prosaicamente, quel sapersi accontentare di un posto dove fan la
pizza buona, un posto dove sentire buona musica, e un posto dove bere buona
birra, 1, 1, 1, mi veniva dal mio essere dorfjung. Che ero nato passeggiando su
un monte da cui si vede il mare e non in mezzo alle scritte al neon. Che per
quanto mi sforzassi di ascoltare elettronica d’avanguardia, venivo da un posto
dove la cosa migliore è chiudersi in una cantina con una chitarra e una
bottiglia di rosso. Che nel mio scenario di trasporti archetipico ho un treno
che mio padre chiama ancora ‘accelerato’ e non la metro con i suoi suoni
minimali campionabili. Passarono alcuni mesi, tornammo tutti a casa, o a
qualcosa del genere. E una mia amica con la valigia stava per partire per l’ennesima
volta, anima straniera sulla terra se ce n’è una. Anche lei aveva vissuto con gli
occhi gonfi di stupore in Germania, ma nella capitale, facendo quasi le dovute
proporzioni, provenendo lei da una città ligure grande quasi quanto tubinga. Eppure,
me lo ricordo ancora bene, quando mi chiese un consiglio, in vista di una nuova
ripartenza, solo questo mi sentii di dirle. Ricordati che sei una dorfmadchen. Nel
bene e nel male. Soprattutto nel male, per ricordarsi del bene.
Bellissima la frase finale! E complimenti per il blog, ci sono arrivata tramite la Dorfmädchen (credo)
RispondiEliminaUn saluto da Amburgo, Mari
racconticavolo.blogspot.de
La Dorfmädchen è proprio lei, in persona :) abbiamo studiato assieme a Genova, e ora siamo assieme in territorio tedesco, lei quasi in Danimarca e io quasi in Svizzera!
RispondiEliminaSono contento che ti sia piaciuto il blog. è un po' la mia valvola di sfogo nella mia doppia (o mezza?) vita ligurtedesca. Ho fatto un passo anch'io sul tuo, e come darti torto? Se 'le parole sono importanti' essere 'verabredet' è importantissimo!
Care cose da Tubinga, Francesco