mercoledì 1 maggio 2013

cose che ti vengono in mente quando torni a casa dopo due mesi


Ardevo di passione allora. Avevo diciott’anni, neanche compiuti, e sebbene fossi molto solo, tutto aveva un senso. C’era una ragazza che abitava a centinaia di chilometri da casa mia, e per vederla prendevo tutti mesi un treno regionale. Viaggiavo attraverso l’Italia di piccole e medie città, e studenti di Piacenza, di Reggio Emilia, di Modena salivano gli uni dopo gli altri sul convoglio. Io ero ancora al liceo, con il mio banco che guardava il muro e le mie letture ipertrofiche. Lei mi aspettava qualche stazione più in là. Tutta quella strada per un sorriso, per un gesto di riconoscimento, per un sentirsi grandi in quelle stanze tutte uguali del collegio dove lei viveva. Talvolta ero così trasognato nell’aspettare quel giorno che quando poi lo vivevo già mi rattristavo del suo saperlo presto volto a termine. Verso le 18 avrei preso un altro treno che mi avrebbe riportato a casa, e da allora le 18 sarebbero diventate per me la meridiana di una piccola morte, di un abbraccio spezzato, di un nastro che si riavvolge troppo in fretta. Poi, di nuovo , l’attesa. Già dal giorno dopo. Non si faceva attendere, l’attesa.
Questa sera mi son trovato in una piccola chiesa a due passi dal centro del mio minuscolo paese di Liguria. Per la prima volta, qui, nell’ormai lontano 2004 presi una sonora ciucca. Era luglio. C’era lei nel mio cuore, e c’erano con me Andrea e un altro amico che chiamavamo e chiamiamo ancora adesso Berze. Non mi ricordo neanche più perché. Andrea era riuscito a procurarsi un invito per due persone a una rassegna di vini che il nostro castello avrebbe ospitato. Io non avevo arte né parte e giocavo a fare quello che s’intendeva di vini oltre che di vocaboli obsoleti. E una sequela di produttori ci offrirono le loro primizie, che noi, con solerte gioia, tracannavamo. Più io che lui, in vero. Lui, assaggiava consapevolmente. Io, che m’atteggiavo a sommelier, bevevo giù tutto come un pivello, consapevole di stare andando incontro all’inevitabile. Avevo sentito racconti di milioni di coetanei e delle loro avventure balorde e divertite sotto l’effetto dell’alcool. Avevo sempre avuto paura di perdere il controllo, non sapevo cosa avrei potuto fare, avevo paura dei miei eccessi.
Quel giorno fu l’eccesso. Bevetti qualcosa come venti bicchieri, se non di più. Ricordo ancora il nome di un produttore, Iannachino, che fu veramente gentile e munifico. Venne l’ora di cena, e non me la sentii di affrontare casa. Finii col citofonare a Berze, che aveva già le gambe sotto il tavolo con i suoi. Mi infornarono una pizza surgelata che presto fu pronta, e cercai di parlare mantenendo una forzosa compostezza che tradiva palesemente il mio stato. Fu molto ingenuo e buffo, a ripensarci. Finita la cena, io e lui tornammo al castello. Andrea ci raggiunse. Stavano sgomberando tutto. Ma Iannachino ci vide e ci diede le ultime bottiglie semipiene, tanto ci aveva presi in simpatia. E quindi camminammo giù dalla rupe e arrivammo a questa chiesetta. E ripresi a nutrirmi di gradazioni etiliche in deciso esubero. Iniziai a sproloquiare. Non riuscivo a fare altro che a parlare di Caterina – questo era il nome della ragazza di cui sopra – che senza di lei la mia vita non valeva nulla, che lei non mi amava quanto io amassi lei, di quanto lei fosse strepitosa unica divina eccezionale. Nel frattempo le finestre di quanti abitavano vicini alla chiesetta s’accendevano di luce elettrica e voci non molto gentili ci intimavano di tacere. Avevano anche un po’ ragione. Per un po’ continuai. Poi strascinandomi non so come – Andrea e Berze mi aiutarono, questo sì, arrivai a casa e mi addormentai a faccia in giù vestito. Tenni anche le scarpe, forse.
Per motivi assolutamente diversi, ora, Caterina e Andrea non ci sono più. Berze festeggia oggi il suo compleanno. Avevo diciott’anni allora. Soffrivo atrocemente. Eppure, sembrava che la vita sarebbe stata una gran cosa.

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