Non ci si venga
a raccontare che viviamo nell’epoca della libertà dei discorsi e dell’informazione
perché non è vero. Il contenitore contiene il contenuto e spesso lo forma anche
un po’. Parlo dell’autocontrollo che chi scrive si impone, per non pestare i
piedi a niente o a nessuno. E che quindi tanto “auto” non è. Accade così nei
giornali in maniera paradigmatica, dove il non poter dire la propria non è
generica viltà o mediocrità dei giornalisti, quanto controllo esercitato dagli
sponsor e dagli azionisti che determinano la linea editoriale. Ma avviene
dovunque un discorso o un qualcosa venga reso pubblico.
Siamo ancora (o
forse, di nuovo) ai tempi della pietra e della forca dei discorsi e non ci
siamo forse abbastanza resi conto che nell’emissione di ogni messaggio il
committente esiste ancora. Caravaggio dipingeva cose talmente straordinarie che
spesse volte gli venivano rese indietro. Lui aveva un’anima irosa o forse solo
sincera, e continuava imperterrito a seguire se stesso. Il pensiero di
combinare il pranzo con la cena non minava la sua integrità. Gli impressionisti
finirono al salone dei rifiutati. Non so se avevano le spalle coperte per
farlo, ma forse un pochino si. Tutti gli scappati di casa della letteratura del
novecento (da Fante a Bukowski passando per Miller e Kerouac) sguazzavano in
mezzo ai pidocchi attendendo trepidanti vaglia spediti da mamme e zie.
Portare fino in
fondo una fedeltà a se stessi significa essere costantemente esposto al
compromesso con i propri contenitori. I “non lo puoi dire” esercitati dalle
committenze più svariate. Spesso mi sono detto: se fossi davvero fedele a me
stesso, sarei un emarginato, un morto di fame…
Perché la conclusione
di tutto questo è una sola: se si vuole essere fedeli a se stessi, bisogna o
accettare la povertà, oppure nascere ricchi, ma tanto ricchi, ma schifosamente
ricchi da poter dire la propria senza farsi troppi problemi. La mia ammirazione
incondizionata va a poche figure della storia dell’umanesimo, che quasi sempre
è la storia di chi ha potuto permettersi di avere una cultura e prima ancora di
saper leggere e scrivere, tanto per iniziare. Uno è il già citato Caravaggio, l’altro
è il signor Friedrich Nietzsche. O anche Ludwig Wittgenstein. Che diciamocelo
chiaramente poteva fare il cazzo che voleva perché era schifosamente ricco. L’utilitarismo
è la vera legge del mondo. Non ci rendiamo conto che la vera tirannia è la
legge dell’utile come unica forma di pensiero possibile, il capitalismo come
stato mentale, operante dal mattino alla sera in rapporti umani che si
contraggono a fine di mezzo e non di scopo. “Ampliare la rosa dei propri
contatti”. Vivere in base a chi conosci e non a cosa conosci. Costantemente
decidiamo di fare qualcosa e non qualcos’altro per via di un profitto
potenziale. Bisogna produrre, produrre, produrre. E quello che nella vulgata è
l’esatto contrario del baffuto martellatore di Röcken, il noiosetto Immanuel
Kant, si dimostra qui singolarmente all’unisono con quegli. Entrambi si sono
scagliati contro la pochezza di un mondo governato visceralmente dalla legge
dell’utile, di un mondo dove i più non sono tanto dei pescicani dostoevskiani,
ma piuttosto dei medici della mutua Guido Tersili, nell’immortale
interpretazione di Alberto Sordi. Persone di buon cuore ma di debole volontà, e
che anzi vivono tutta una vita facendo quello che non pensano e non vogliono,
fino a flirtare con la moglie del gran medicone morente per ottenere i suoi
mutuati.
Una soluzione c’è.
Qualcuno di
ricco, di straricco, di disgustosamente ricco, che quindi può concedersi il
lusso di dire davvero quello che pensa, e che quindi lo scriva. Un pensiero
rivoluzionario può solo nasce oggi, forse, solamente da qualcuno di
clamorosamente agiato. Perché nessuno ha più voglia di vivere con le braghe
rammendate. Io per primo.
Un filosofo
tedesco diceva negli anni settanta che ormai soltanto un dio ci può salvare.
io direi
piuttosto, ormai soltanto un ricco ci può salvare.
apri il campo a un sacco di riflessioni.
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