[sono passati tre anni tre dal mio primo impatto in terra tedesca. Tra i vari fogli virtuali di quella prima esperienza, ne scelgo uno]
1 Febbraio 2010, mattina.
M. è stata una delle prime
ragazze che ho conosciuto a Tubinga. M. è stata una delle pochissime persone
per cui potessi dire che fosse, qui, indubbiamente ‘strana’. Tutti erano
incredibilmente ‘sani’ nel senso gaberiano del termine. M. parlava un tedesco
velocissimo e farfugliato, che in chiunque altro avrebbe dato tutta
l’impressione del parlare a scatti nevroticamente, ma in lei non era affatto
così. M. studiava filosofia. Precisamente, faceva il dottorato su una mistica di
area tedesca (credo) del duecento. M. era letteralmente una ispirata. Il suo
parlare così veloce ti travolgeva letteralmente. Era incomprensibile ai più.
Parlava volentieri, ma, stante il mio tedesco nullo dei primi tempi, non capivo
quasi nulla di quello che diceva. Una volta provai a dirle ‘ich habe nicht
verstanden’, non ho capito, e lei pareva essersi offesa. Non glielo dissi più.
Però i primi tempi andava che lei mi parlava, per minuti e minuti, e io molte
volte davo dei cenni di assenso. Mi sarebbe interessato sapere quello che stava
dicendo, ma era letteralmente impossibile accedere alle parole che una dopo
l’altra infilava quasi rapita, quasi posseduta nel pronunciarle. Qualche mese
dopo, Giacomo mi disse che M. infilava anche un errore dietro l’altro nel suo
tedesco, e io me ne stupii. Non sapeva l’inglese. Un mio amico italiano, venuto
a trovarmi a Tubinga, tentò di allacciare una conversazione con lei. Lei le
chiese se lui sapesse il tedesco, e lui lo sapeva quanto bastava per dirle che
non lo sapeva. Lui allora le chiese se lei sapesse l’inglese. Lei lo sapeva
quanto bastava per dirgli che non lo sapeva.
M. era infinitamente gioiosa. Il
suo modo di parlare era la migliore metafora per descriverla. Trasudava un
entusiasmo sconvolgente, forse, più che coinvolgente. Era un vero e proprio
terremoto interiore, come l’avevamo simpaticamente apostrofata. Aveva lunghi
capelli castani, occhi azzurri, ed era sempre pronta a sorridere. Sarà banale,
ma pareva davvero provenire da un’altra epoca, da qualcosa di totalmente
rurale, o di totalmente remoto. Emanava bontà. Di fatto, parlava spesso di
energia delle persone, per non dire delle pietre. Mi disse che ero buono, e
credo di capire cosa intendesse. Era vegetariana. I primi tempi fummo molte
volte sul punto di stringere amicizia, ma confesso che ne avevo quasi paura.
Ripeto, era sconvolgente. La gente della mia classe del primo corso di tedesco,
che risale ormai a settembre, la considerava una bizzarria della natura e di
fatto la escludeva. Ma così in verità non era, perché M. aveva visto prima.
Guardava altrove. Un ragazzo che vive con lei, con il quale avevo condiviso il
primo sciagurato corso di un tedesco allora nullo, diceva di evitarla come la
peste. Ne soffrii. Ricordo i primissimi giorni a Tubinga. Eravamo al Burger
AMT, a discapito del nome, non un fast food, ma un ufficio comunale. Dovevamo
fare tutti pratiche burocratiche. Lei era praticamente sola, era qualcosa di
totalmente altro. Io mi avvicinai, e parlammo. Lei stava leggendo Lévinas. Io
le dissi che stavo leggendo Buber, e che era l’autore della mia tesi. All’epoca
la tesi andava molto male, avevo iniziato da poco le letture, ed ogni giorno
era un vero e proprio naufragio. M. conosceva Buber, e mi disse che aveva
trovato un suo libro qui, a poco prezzo. Forse, una sua biografia. Purtroppo,
come sempre non capii molto. Ma trovare qualcuno interessato a Buber a Tubinga
confermava la mia teoria delle monoporzioni, che ogni persona qui incontrata
poteva rappresentare un piccolo angolo della mia vita. Tutte insieme formavano
la totalità di quanto mi potesse caratterizzare, e ognuna, singola, era per me
un lato di me che potevo ri-trovare. Queste considerazioni nascevano in mesi di
spaesamento totale. Credo che con M. avremmo potuto andare davvero d’accordo.
Io volevo imparare tantissimo, ero ossessionato dall’accrescere la mia
esperienza di vita. Al contrario, fui gettato nel primo mese in mezzo a una
serie inenarrabile di party semidioti. Che da qualche parte del mio essere apprezzavo
anche. Seppure. M. poteva essere un altro inizio. Tuttavia, quando lei mi
chiese il mio numero di telefono, finsi quasi di non capire. Questo non mi fa
onore, ma è davvero andata così.
Quando la incontravo nella
biblioteca universitaria, io e M. imparammo a salutarci con affetto. Anzi,
quello che imparò fui io. Lei aveva già imparato. Mi veniva incontro, e ci
abbracciavamo. Sentivo qualcosa di infinitamente buono provenire da lei,
qualcosa di completamente innocente. Ma anche a distanza di mesi, quando
parlava facevo una fatica boia a capirla. Era una dinamica davvero strana,
tutta basata, se vogliamo, su sensazioni che precedono o trascendono la
linguisticità. Quasi come due animali che si fiutano e si (ri)conoscono. Forse
eravamo due bestie non tanto diverse, e lei aveva semplicemente raggiunto un
livello totale di interezza e unificazione del proprio sentire. Emetteva
davvero luce. La sua non sembrava semplicemente felicità, ma qualcosa di più
intenso. Vita, forse. Quando la incontrai a ottobre nel dipartimento di
filosofia, bisognava scegliere i corsi da seguire, lei diceva con gioia che ne
seguiva uno fino alle dieci di sera. Ultimamente, mi diceva, dormiva tre ore
per notte. La vita non poteva aspettare. Ricordo, recentemente, mi trovavo alla
biblioteca universitaria. Decisi di andare a mensa, ma non c’era nessuno che
conoscessi. Arrivò M., aveva già mangiato, stava per andarsene. Mi ricordo
ancora adesso la sua domanda: ‘mangi veloce?’. Chi mi conosce, sa che la
risposta è decisamente affermativa. C’era il sole, che filtrava attraverso le
finestre del grosso casermone di plastica e metallo della mensa. Ma con M. un
momento del genere poteva diventare immediatamente religioso. Parlammo di
Buber, le spiegai l’intuizione buberiana per cui Dio si incontra in ogni
incontro. Era come se avessi decifrato il segreto della sua vita, mi parve di
capire. Dopo aver finito i miei cannelloni, ed avermi lei aiutato con
l’insalata che puntualmente scartavo, le mostrai in biblioteca l’antologia di
mistica di Buber, Confessioni estatiche. Era un libro bianco con incisa una
scritta d’oro ‘Ekstasis.’ Aveva un che di evocativo. E c’era, soprattutto, la
sua Ildegarda di Binga. M. ne era entusiasta, non finiva più di ringraziarmi.
Il giorno dopo, mi chiese fino a
quando sarei rimasto in Erasmus. Le risposi, fino a fine maggio. Mi chiese se
mi piaceva andare in bicicletta, le risposi di sì (anche se erano anni che non
lo facevo). Voleva regalarmi la sua bici. Qui a Tubinga ci sono migliaia di
bici. Gli studenti le comprano e le rivendono, e nessuno spende mai più di
trenta euro. Ma il fatto che volesse regalarla, diceva tutto di M.. E a me. Mi
sentivo destinatario di un qualcosa di importante. Sentivo di averle lasciato
qualcosa, forse quell’ ‘essere buono’ di cui parlavo, anzi, parlava.
Tornai in Italia una settimana.
Sapendo che era vegetariana, chiesi a mia madre di preparare un po’ di pesto
per lei. Quando tornai su a Tubinga, un venerdì di fine gennaio, la sera
stessa, lei faceva qualcosa nella sua cucina. Ero stanco morto, ma volli
assolutamente andarci. Le portai il pesto. Lei mi disse che l’avrebbe mangiato
con sua madre e sua sorella. Non fece menzione del padre, chissà. In questo suo
implicito tacere, d’un tratto pensai che M., come tutti noi, oltre alla sua
sovraumana energia aveva i suoi cancri segreti, i suoi anelli che non tengono,
punti senza luce. Eppure, sembrava averli trascesi nel suo sorridere mai ebete
e sempre ispirato, e nelle sue domande come: ‘vuoi mica lavarti le mani?’
M.. Adesso sta per partire. È la
prima volta che scrivo per un amico di Erasmus in partenza, sebbene, in realtà
con lei non abbiamo mai stretto un rapporto esplicitamente forte. Era
totalmente episodico, ma dire questo non rende la nature delle cose. Era
eventuale, come un evento che non aspetta niente e nessuno, ma, semplicemente,
a chi abbia orecchie e cuore per intendere, accade.
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