domenica 30 settembre 2012

M.


[sono passati tre anni tre dal mio primo impatto in terra tedesca. Tra i vari fogli virtuali di quella prima esperienza, ne scelgo uno]

1 Febbraio 2010, mattina.


M. è stata una delle prime ragazze che ho conosciuto a Tubinga. M. è stata una delle pochissime persone per cui potessi dire che fosse, qui, indubbiamente ‘strana’. Tutti erano incredibilmente ‘sani’ nel senso gaberiano del termine. M. parlava un tedesco velocissimo e farfugliato, che in chiunque altro avrebbe dato tutta l’impressione del parlare a scatti nevroticamente, ma in lei non era affatto così. M. studiava filosofia. Precisamente, faceva il dottorato su una mistica di area tedesca (credo) del duecento. M. era letteralmente una ispirata. Il suo parlare così veloce ti travolgeva letteralmente. Era incomprensibile ai più. Parlava volentieri, ma, stante il mio tedesco nullo dei primi tempi, non capivo quasi nulla di quello che diceva. Una volta provai a dirle ‘ich habe nicht verstanden’, non ho capito, e lei pareva essersi offesa. Non glielo dissi più. Però i primi tempi andava che lei mi parlava, per minuti e minuti, e io molte volte davo dei cenni di assenso. Mi sarebbe interessato sapere quello che stava dicendo, ma era letteralmente impossibile accedere alle parole che una dopo l’altra infilava quasi rapita, quasi posseduta nel pronunciarle. Qualche mese dopo, Giacomo mi disse che M. infilava anche un errore dietro l’altro nel suo tedesco, e io me ne stupii. Non sapeva l’inglese. Un mio amico italiano, venuto a trovarmi a Tubinga, tentò di allacciare una conversazione con lei. Lei le chiese se lui sapesse il tedesco, e lui lo sapeva quanto bastava per dirle che non lo sapeva. Lui allora le chiese se lei sapesse l’inglese. Lei lo sapeva quanto bastava per dirgli che non lo sapeva.
M. era infinitamente gioiosa. Il suo modo di parlare era la migliore metafora per descriverla. Trasudava un entusiasmo sconvolgente, forse, più che coinvolgente. Era un vero e proprio terremoto interiore, come l’avevamo simpaticamente apostrofata. Aveva lunghi capelli castani, occhi azzurri, ed era sempre pronta a sorridere. Sarà banale, ma pareva davvero provenire da un’altra epoca, da qualcosa di totalmente rurale, o di totalmente remoto. Emanava bontà. Di fatto, parlava spesso di energia delle persone, per non dire delle pietre. Mi disse che ero buono, e credo di capire cosa intendesse. Era vegetariana. I primi tempi fummo molte volte sul punto di stringere amicizia, ma confesso che ne avevo quasi paura. Ripeto, era sconvolgente. La gente della mia classe del primo corso di tedesco, che risale ormai a settembre, la considerava una bizzarria della natura e di fatto la escludeva. Ma così in verità non era, perché M. aveva visto prima. Guardava altrove. Un ragazzo che vive con lei, con il quale avevo condiviso il primo sciagurato corso di un tedesco allora nullo, diceva di evitarla come la peste. Ne soffrii. Ricordo i primissimi giorni a Tubinga. Eravamo al Burger AMT, a discapito del nome, non un fast food, ma un ufficio comunale. Dovevamo fare tutti pratiche burocratiche. Lei era praticamente sola, era qualcosa di totalmente altro. Io mi avvicinai, e parlammo. Lei stava leggendo Lévinas. Io le dissi che stavo leggendo Buber, e che era l’autore della mia tesi. All’epoca la tesi andava molto male, avevo iniziato da poco le letture, ed ogni giorno era un vero e proprio naufragio. M. conosceva Buber, e mi disse che aveva trovato un suo libro qui, a poco prezzo. Forse, una sua biografia. Purtroppo, come sempre non capii molto. Ma trovare qualcuno interessato a Buber a Tubinga confermava la mia teoria delle monoporzioni, che ogni persona qui incontrata poteva rappresentare un piccolo angolo della mia vita. Tutte insieme formavano la totalità di quanto mi potesse caratterizzare, e ognuna, singola, era per me un lato di me che potevo ri-trovare. Queste considerazioni nascevano in mesi di spaesamento totale. Credo che con M. avremmo potuto andare davvero d’accordo. Io volevo imparare tantissimo, ero ossessionato dall’accrescere la mia esperienza di vita. Al contrario, fui gettato nel primo mese in mezzo a una serie inenarrabile di party semidioti. Che da qualche parte del mio essere apprezzavo anche. Seppure. M. poteva essere un altro inizio. Tuttavia, quando lei mi chiese il mio numero di telefono, finsi quasi di non capire. Questo non mi fa onore, ma è davvero andata così.
Quando la incontravo nella biblioteca universitaria, io e M. imparammo a salutarci con affetto. Anzi, quello che imparò fui io. Lei aveva già imparato. Mi veniva incontro, e ci abbracciavamo. Sentivo qualcosa di infinitamente buono provenire da lei, qualcosa di completamente innocente. Ma anche a distanza di mesi, quando parlava facevo una fatica boia a capirla. Era una dinamica davvero strana, tutta basata, se vogliamo, su sensazioni che precedono o trascendono la linguisticità. Quasi come due animali che si fiutano e si (ri)conoscono. Forse eravamo due bestie non tanto diverse, e lei aveva semplicemente raggiunto un livello totale di interezza e unificazione del proprio sentire. Emetteva davvero luce. La sua non sembrava semplicemente felicità, ma qualcosa di più intenso. Vita, forse. Quando la incontrai a ottobre nel dipartimento di filosofia, bisognava scegliere i corsi da seguire, lei diceva con gioia che ne seguiva uno fino alle dieci di sera. Ultimamente, mi diceva, dormiva tre ore per notte. La vita non poteva aspettare. Ricordo, recentemente, mi trovavo alla biblioteca universitaria. Decisi di andare a mensa, ma non c’era nessuno che conoscessi. Arrivò M., aveva già mangiato, stava per andarsene. Mi ricordo ancora adesso la sua domanda: ‘mangi veloce?’. Chi mi conosce, sa che la risposta è decisamente affermativa. C’era il sole, che filtrava attraverso le finestre del grosso casermone di plastica e metallo della mensa. Ma con M. un momento del genere poteva diventare immediatamente religioso. Parlammo di Buber, le spiegai l’intuizione buberiana per cui Dio si incontra in ogni incontro. Era come se avessi decifrato il segreto della sua vita, mi parve di capire. Dopo aver finito i miei cannelloni, ed avermi lei aiutato con l’insalata che puntualmente scartavo, le mostrai in biblioteca l’antologia di mistica di Buber, Confessioni estatiche. Era un libro bianco con incisa una scritta d’oro ‘Ekstasis.’ Aveva un che di evocativo. E c’era, soprattutto, la sua Ildegarda di Binga. M. ne era entusiasta, non  finiva più di ringraziarmi.
Il giorno dopo, mi chiese fino a quando sarei rimasto in Erasmus. Le risposi, fino a fine maggio. Mi chiese se mi piaceva andare in bicicletta, le risposi di sì (anche se erano anni che non lo facevo). Voleva regalarmi la sua bici. Qui a Tubinga ci sono migliaia di bici. Gli studenti le comprano e le rivendono, e nessuno spende mai più di trenta euro. Ma il fatto che volesse regalarla, diceva tutto di M.. E a me. Mi sentivo destinatario di un qualcosa di importante. Sentivo di averle lasciato qualcosa, forse quell’ ‘essere buono’ di cui parlavo, anzi, parlava.
Tornai in Italia una settimana. Sapendo che era vegetariana, chiesi a mia madre di preparare un po’ di pesto per lei. Quando tornai su a Tubinga, un venerdì di fine gennaio, la sera stessa, lei faceva qualcosa nella sua cucina. Ero stanco morto, ma volli assolutamente andarci. Le portai il pesto. Lei mi disse che l’avrebbe mangiato con sua madre e sua sorella. Non fece menzione del padre, chissà. In questo suo implicito tacere, d’un tratto pensai che M., come tutti noi, oltre alla sua sovraumana energia aveva i suoi cancri segreti, i suoi anelli che non tengono, punti senza luce. Eppure, sembrava averli trascesi nel suo sorridere mai ebete e sempre ispirato, e nelle sue domande come: ‘vuoi mica lavarti le mani?’
M.. Adesso sta per partire. È la prima volta che scrivo per un amico di Erasmus in partenza, sebbene, in realtà con lei non abbiamo mai stretto un rapporto esplicitamente forte. Era totalmente episodico, ma dire questo non rende la nature delle cose. Era eventuale, come un evento che non aspetta niente e nessuno, ma, semplicemente, a chi abbia orecchie e cuore per intendere, accade.

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