domenica 22 luglio 2012

vedo la gente calva (il sentimento del tempo)


vedo la gente calva. penisole di capelli che si stagliano inarcando golfi sempre più ampi, e poi più nulla. mi ricorda che sono stato via alcuni mesi. tizio aveva ancora un riportino quasi credibile, ora ha fatto come agassi. la calvizie è come il natale, quando arriva, arriva. come tutto, nel volto degli altri. che se noi sappiamo di dover morire solo attraverso l’esperienza della morte degli altri, figuriamoci la caduta dei capelli. da lei imparo lo scorrere del tempo. inarrestabile. l’unica cosa che arresta la caduta dei capelli, pare, è il pavimento. è impossibile cadere dal pavimento, del resto.

vedo rughe che solcano visi, corrugati dalle prime preoccupazioni del passaggio dell’età adulta. quella che inizia nel momento epifanico in cui il fato parla, e sollevando l’indice destro ammonisce: “d’ora in poi sono tutti cazzi tuoi”. Dovrai cavartela con le tue forze, combinare il pranzo con la cena e stirarti le mutande. altro che suono in una rock band suono in una boy band. altro che dannata festa delle medie. altro che byronismi aforismi licia kiss me. comunque le mutande non si stirano, mi han detto. e lei ha un filo di borse sotto gli occhi, ora.

vedo bambini che non sono più bambini attraverso il rito di passaggio massivamente praticato della prima sigaretta. che pare essere un amuleto che intende accelerare il primo preservativo usato. difficile interregno, quello tra la prima sigaretta fumata e il primo preservativo usato. li vedo, e rivedo i miei coetanei di oggi dieci anni fa, quasi quindici ormai. non ho iniziato a fumare perché sono rimasto un bambino, probabilmente. come il protagonista di un film che mi piace tanto. gli anni passano, le mode cambiano, gli imperativi erotici restano.

vedo, anzi sento che la gente si sposa. non sento la gente che si sposa, significherebbe udire urla di gioia nel sagrato della chiesa, ma sento che si sposa, come una pettegola arrivata troppo tardi. si uniscono, alla faccia della crisi, del governo, e del declino dell’occidente. venticinque, quasi ventisei anni. anche la mia leva millenovecentottantasei sta aprendo le danze. convivenze, pare, che ne fossero già da tempo. del resto, di tutte le vite, la più difficile è quella in uno.

vedo, sento, so, per fortuna, so da un po’ di tempo che la gente sono anch’io. ho smesso da alcuni mesi, forse anche anni, di dire la gente, la gente. qui ho scherzato con il sesto senso e anche con il sesto scemo. ma sapere che la gente sono pure io, è l’inizio di una proficua evacuazione delle balle che si ha in testa in quell’età (vent’anni, guccini, eskimo). e quindi non c’è l’essere spettatore delle vite altrui, atroce destino di ogni anima iperemotiva e laconicamente un po’ patetica. no.

è il sentimento del tempo. il tempo passa, il passatempo. no panic. il tempo guarirà tutto, e che succede però se il tempo stesso è una malattia? qualcuno si chiedeva. no, non lo è. passa e va. e più di lor non si ragiona. e forse un giorno sarà anche dolce ricordare. e mi si forma per la prima volta un sorriso inarcato verso l’alto, indulgente e pacificato. mi piace pensare d’essere giunto al punto in cui sono persino in pace col mio paese, teatro della sciagura che in ogni umano si chiama minore età. non ho vergogna o disgusto a passare per la piazza, come diversi miei sodali ancora hanno. ma la scioltezza di un come va che inforco ogni giorno nel suo corrispettivo tedesco wie geht’s qui non mi verrà mai, credo. cammino solo, il domenica sera della festa. poi qualcuno arriva e smetto questi panni accigliati, in un attimo.

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