vedo la gente calva. penisole di capelli che si stagliano
inarcando golfi sempre più ampi, e poi più nulla. mi ricorda che sono stato via
alcuni mesi. tizio aveva ancora un riportino quasi credibile, ora ha fatto come
agassi. la calvizie è come il natale, quando arriva, arriva. come tutto, nel
volto degli altri. che se noi sappiamo di dover morire solo attraverso l’esperienza
della morte degli altri, figuriamoci la caduta dei capelli. da lei imparo lo
scorrere del tempo. inarrestabile. l’unica cosa che arresta la caduta dei
capelli, pare, è il pavimento. è impossibile cadere dal pavimento, del resto.
vedo rughe che solcano visi, corrugati dalle prime
preoccupazioni del passaggio dell’età adulta. quella che inizia nel momento
epifanico in cui il fato parla, e sollevando l’indice destro ammonisce: “d’ora
in poi sono tutti cazzi tuoi”. Dovrai cavartela con le tue forze, combinare il
pranzo con la cena e stirarti le mutande. altro che suono in una rock band
suono in una boy band. altro che dannata festa delle medie. altro che byronismi
aforismi licia kiss me. comunque le mutande non si stirano, mi han detto. e lei
ha un filo di borse sotto gli occhi, ora.
vedo bambini che non sono più bambini attraverso il rito di
passaggio massivamente praticato della prima sigaretta. che pare essere un
amuleto che intende accelerare il primo preservativo usato. difficile
interregno, quello tra la prima sigaretta fumata e il primo preservativo usato.
li vedo, e rivedo i miei coetanei di oggi dieci anni fa, quasi quindici ormai. non
ho iniziato a fumare perché sono rimasto un bambino, probabilmente. come il
protagonista di un film che mi piace tanto. gli anni passano, le mode cambiano,
gli imperativi erotici restano.
vedo, anzi sento che la gente si sposa. non sento la gente
che si sposa, significherebbe udire urla di gioia nel sagrato della chiesa, ma
sento che si sposa, come una pettegola arrivata troppo tardi. si uniscono, alla
faccia della crisi, del governo, e del declino dell’occidente. venticinque,
quasi ventisei anni. anche la mia leva millenovecentottantasei sta aprendo le
danze. convivenze, pare, che ne fossero già da tempo. del resto, di tutte le
vite, la più difficile è quella in uno.
vedo, sento, so, per fortuna, so da un po’ di tempo che la
gente sono anch’io. ho smesso da alcuni mesi, forse anche anni, di dire la
gente, la gente. qui ho scherzato con il sesto senso e anche con il sesto
scemo. ma sapere che la gente sono pure io, è l’inizio di una proficua
evacuazione delle balle che si ha in testa in quell’età (vent’anni, guccini,
eskimo). e quindi non c’è l’essere spettatore delle vite altrui, atroce destino
di ogni anima iperemotiva e laconicamente un po’ patetica. no.
è il sentimento del tempo. il tempo passa, il passatempo. no
panic. il tempo guarirà tutto, e che succede però se il tempo stesso è una
malattia? qualcuno si chiedeva. no, non lo è. passa e va. e più di lor non si
ragiona. e forse un giorno sarà anche dolce ricordare. e mi si forma per la
prima volta un sorriso inarcato verso l’alto, indulgente e pacificato. mi piace
pensare d’essere giunto al punto in cui sono persino in pace col mio paese,
teatro della sciagura che in ogni umano si chiama minore età. non ho vergogna o
disgusto a passare per la piazza, come diversi miei sodali ancora hanno. ma la
scioltezza di un come va che inforco ogni giorno nel suo corrispettivo tedesco
wie geht’s qui non mi verrà mai, credo. cammino solo, il domenica sera della
festa. poi qualcuno arriva e smetto questi panni accigliati, in un attimo.
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