domenica 27 maggio 2012

virgola, punto.

Buio in cucina. fuori piove. per un istante mi sento a casa mia, a campoligure, come se ci si abitassi solo io. come uno 'scrittore', con la macchina da scrivere ed il sigaro. immancabilmente arriva mia madre. parla, chiede risposta, le dico che sto sbrigando alcune cose poi la raggiungo. capisce. lo dimostra non accendendo la luce. apre il frigorifero, accende la fioca lampadina della cappa della cucina a gas che accresce il senso notturno, inizia a masticare, se ne va. sento il rumore del frigorifero, vedo la fluorescenza di un deodorante d'ambiente, la palla del lampione pubblico là fuori. tutto è silenzioso, oggi. anch'io. gesti lenti e compiuti in modo quasi squadrato, pollini, nevralgia al dente, andare al mare. la sdraio, la partita della squadra del mio paese, la scelta di non seguirla come se fosse un invito che non mi appartiene. forse non ho ancora risolto certe cose. in mattinata con mio padre ci siamo seduti sui gradini, non della chiesa, non siamo ancora così vicini al paese, mio padre non lo è da mai, provenendo dal paese a fianco, e qui c'è sposato dal settantadue, ma non saluta quasi nessuno, per riserbo e indole schiva tutta ligure e montanara. volevo sedermi sui gradini della chiesa, domenica, vedere la gente che passa, controllare se ci sono tutti. il sosia di sandro ciotti col nasone sempre rosso, quello di carlo marx, quello di toto'. infilati tutti e tre in dieci minuti. una ragazza che ha un anno piu di me seduta con sua madre una fila davanti di scalino. non ci salutiamo nemmeno. lei si è sempre sentita hollywood, magari adesso è cambiata, illusorio e superbo è credere che a cambiare siamo solo noi, ma non l'ho salutata lo stesso. la banda, composta tutta da ragazzi e ragazze quasi più giovani di me. gli alpini, quasi tutti ragazzi meno giovani di mio padre. mi veniva da pettegolare, come ogni sociologo sa, essenza dello spirito di coesione di un ambiente. ma era un giocare a, naturalmente. qui non conosco nessuno, neppure io. soprattutto io. non so di chi è figlio, padre, cugino questo o quello. non sarò mai sindaco qui. non saluto le vecchiette, oltre alle ragazze che se la tirano. loro probabilmente sanno chi sono io, ma io non so chi sono loro. è buffo. queste facce le vedo piu o meno da sempre, e non ci siamo mai parlati. potrei iniziare a farlo, forse c'è stato un momento preciso in cui avrei potuto e non l'ho fatto. recentemente ho scritto che non c'è un momento preciso per essere felici, che tutta la vita è passaggio e transizione, ma forse per certe cose viene una stagione. come quella per cui da bambino ad adulto inizi a salutare e ad esser salutato dalla comunità e parli e ascolti come membro di essa. mai successo, a me. se sono campese, genovese, ligure non è per le persone. quando sono all'estero calco la mia genovesità. me ne rendo conto. questo rientro è stranamente rigido, severo, un poco sordo. forse so che sono pochi giorni e non c'è il tempo per sciogliersi. le solite intolleranze ai soliti comportamenti che si riaffiacciano ciclicamente. forse avrei voglia di qualcuno che mi chiami, che si stupisca di questo rientro. un piccolo delirietto di onnipotenza, un pizzico di fragilità. mi sento separato, quindi lucido. come una frase breve, che s'inarca in una virgola, e trova il punto. giusto il tempo per accartocciarsi da un lato, e poi finisce. e ne riprende un'altra, però.

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