giovedì 26 aprile 2012

l'ennesimo primo impatto in terra tedesca

di nuovo svegliarsi con la testa rimbombante di parole di una lingua non tua, in un tedesco sgrammaticato e disconnesso, messo alla prova miseramente ieri in un test grammaticale totalmente teorico che certificherà il tuo livello di avviamento per un corso. Avrai la costanza di affinare una lingua che non senti tua di una nazione che non senti tua? Che cosa senti tuo? A due giorni dal trasferimento, un trasferimento, vero, sempre mobile e mai definitivo, devi stare attento a non dare peso più del necessario alle cose. L'inevitabile familiarità mischiata con l'estraneità di questa cittadina, dove sai dove comprare il pane o bere una birra più per abitudine che per esperienza, dove non ti sei mai fuso con essa, mai sentito unità, armonia, o anche solo avvertire continuità. Sempre estraneo, sempre straniero, altro, alieno, alienato. Il rischio c'è: il proprio spazio abitativo ridotto alle quattro mura bianche di una stanzetta dove di là la comunità di anne karenine disperate casalinghe è inaccessibile, come tutto. Internet che ieri sera non andava è un motivo sufficiente per perdere le staffe, ma solo per un po'; sai che tornerà, per qualche oscura legge dove la scienza deborda nella magia, tornerà a funzionare, mastruzzando un attimo alla speraindio. E di fatti, la mattina dopo, stamattina, di nuovo funzionante, eccolo, pronto fiammente per un'ora di corrispondenza epistolare tra contatti che scaldano il cuore, ed altri in cui il tristo Lei di cortesia del gergo accademico: grazie professore, grazie per la Sua maiuscola attenzione la fa da padrone. E pure.
Quando sei qui ti senti debole, fisicamente esposto, fragile, addirittura potenzialmente assassinabile. Senti che devi riguardarti, che sei una cosa esile e facilmente deperibile, anche se sei visibilmente più gonfio del solito, pare 'na pizza la tua faccia mentre la specchi nelle auto posteggiate. E la catenella della bici ha la chiave che entra a fatica, e temi si spezzi dentro come già lo fece un'altra il mese scorso appena, e poi dovesti chiamare la polizei per dire che non stavi diventando ladro di te stesso. Hai voglia a dare numeri di telaio di bici comprate da zingari e riassemblate da napoletani. Napoletani che ti vengono a prendere sotto la pioggia battente all'aeroporto di Stoccarda senza batter ciglio, t'offrono una generosità inaudita che ti fa capire che genovese è tirchio, perché tirchio prima di tutto vuol dire non generoso, e cos'è la vita senza generosità, ospitalità? Qui al massimo hai accoglienza, accettazione, malcelata riprovazione, sei un immigrato dopo tutto. Senti che devi stare attento su tutto: sei esposto, pienamente esposto, è strano, la città è piccola e serena, non succede mai nulla di male, al massimo un vecchietto che ti segnala una scarpa slacciata, ma sei sul chi va là. Come chi non è a casa sua e prima o poi sa che farà una cazzata inavvertita, e dovrà sbrigarsela da solo.
A Genova scendi tutti i giorni e senza dover finire per forza in mezzo a puttane e detenuti sai che sono le tue strade e nulla temi: le percorri, ti riconoscono, ci sei. Anche se lì nel profondo ci sono solo fugaci saluti e confidenze mai sbocciate col panettiere, il bettolino, la focacciara. Si potrebbe fare di più con tutti gli anni che ci sei dentro, sei forestiero anche lì in realtà, ma oramai, comunque, ti senti parte. O quantomeno non estraneo. Qui il biancore della facoltà teologica è accecante come quello di una camicia di forza, e il legno della facoltà di filosofia opprimente come una cantina buia alla lucio battisti, con tutti quei libri che non si fanno i cazzi loro e che ti osservano. In italia avresti di che fare, avrai di che fare: qualcuno ti ha rifatto dono della creatività, e ti senti oltremodo sicuro di te, perché senti che di almeno tre vite una andrà in porto. Le persone senti che sono tue, che intorno a te hai le persone della tua vita, che permarranno, che sono legate al territorio, volenti o nolenti, e i nolenti riescon quasi a divenire volenti, proprio ora che magari per lavoro o per speranza se ne devono andare. Ma è casa tua, c'è tua madre, che adesso hai piacere che ti aspetti alla sera, c'è la sensazione che non solo il tuo passato è lì, ma anche il tuo futuro; un albero non sta bene lontano dalle radici – frase che a rigore non vuol dire nulla – se è in salute: se le radici non sono escrescenze nel terreno vagamente muffose, ma finalmente portano linfa.
La cosa più struggente poi, che probabilmente ha innescato tutte queste righe: consegnare il 'tuo' libro al professore che ti seguiva già nel 2009, e non trovare le parole per fare la dedica: scoprire che anche lui non c'è, è in Forschungssemester e che tutto cambia persino a Tubinga, chiedere un consiglio alla sua segreteria, non ottenerlo, tornare davanti al pc,cercare pagine di Widmungen (dediche) in tedesco e non trovare nulla, cercare allora quelle che per te sono le parole più belle per una dedica, ma come si dicono, non avere le parole per fare una dedica! stima, affetto e gratitudine, scopri che si dicono più o meno Wertschätzung, Zuneigung und Dankbarkeit e mentre ritorni nel suo studio l'intuizione della dedica bilingue. Lui ha 65 anni, andrà presto in pensione: continui a pensare che quel libro lo riceveà, credi con piacere, sì, lui sì, lo riceverà con piacere, se lo metterà in biblioteca, qualcosa di tuo in una casa tubinghese di una persona a cui vuoi bene e che a tratti ti ha fatto sentire, anche qui, la vita.

1 commento:

  1. Herr Doktorand, es ist notwendig, dass Sie über Ihre Quellen für Ihre Arbeit sprechen. Ich hoffe, dass Sie vieles Material während Ihrer deutscher Erlebnis gehabt haben. Ich spreche nicht über das Studium, sondern das "Leben". Einsamkeit und Unduldsamkeit sind starker, wenn die Erinnerung der Motivationen entfällt, die Sie getrieben haben, nach Deutschland zu fahren. Der Mensch wird gegen die Natur gezwungen, zu ändern. Schöpfen Sie Mut! Die einzige Empfehlung ist, die ich Sie geben kann, das Land zu erforschen, auf der Suche nach dem idealem Platz, wo Sie leben kann.
    Schöne Grüße.

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