sabato 21 febbraio 2015

di quanta casa ha bisogno un uomo?

Wie viel Heimat braucht ein Mensch - Di quanta PATRIA ha bisogno un uomo? Si chiedeva Jean Amery. Dove patria è Heimat, non una terra di padri fieri e arcigni (Vaterland), ma una terra domestica, un luogo dove ci si sente a casa (Heim). Riformulo la domanda: di quanta CASA ha bisogno un uomo? Tanta, chiaramente. Ma che significa, per chi vive a mille km da dove è nato, sentirsi a casa? La risposta bacioperuginesca che casa è dove hai il cuore, nella sua patetica leziosità, non è poi così lontana dal vero. (Certo, io è un altro: ma a ben guardare è una scorciatoia lapalissiana, per non dire tautologica). La domanda diventa allora: di quanto AMORE ha bisogno un uomo? Beh, mai abbastanza.

Da alcuni giorni, o forse settimane, il mio livello di Heimat è cresciuto. Questo blog ne ha fatto forse per primo le spese, che cos’è un blog (e prima ancora la parola scritta) se non una casa virtuale? (forse scrivere è proprio –anche- questo: desiderio di sentirsi a casa propria). Il motivo potrà sembrare terribilmente gretto e materiale a tutti gli aspiranti asceti e a tutti gli amanti della sostanza che va oltre l’apparenza, e ad altre consimili genie di umani che amano splittare in gruppi e sottogruppi, certi di avere l’ago magnetico del vero buono e bello sempre dalla loro parte. (Beati loro avrebbe detto Paul Valery, io spesso non sono neanche del mio stesso parere). Ebbene la macchina del caffè ha accresciuto esponenzialmente il mio sentirmi a casa a Jena. Poter avere un espresso degno del miglior bar italico è una meraviglia per il palato, ma è ben lungi dall’essere solo quello. Quella macchina del caffè è la mia storia. Come quel giradischi Lenco B55 in legno e acciaio. E io sono la mia storia, come tutti noi. Ed è nella mia storia, sempre che non sia una storia ignobile, che ho bisogno di rispecchiarmi e di ritrovarmi.

Una stanza vuota, in una città in cui sei appena arrivato potrà suscitare all’americano che è in te un brivido di sottile eccitazione. Penso a quella sensazione tipica dei romanzi di Paul Auster, per cui il nuovo inizio coincide con la libertà, e la pagina bianca è il sinonimo di una sovrabbondanza trionfante della vita: tutto è possibile. Ma il senso della possibilità, il palpitio del poter essere tutto, porta spesso con sé, nondimeno, un polare sentimento di annichilimento. Icaro si sfracella sempre e di nuovo. Per anni mi sono chiesto quando la vita fosse davvero vita, come Henry Miller nei suoi Tropici. Ora che la vita è tremendamente in atto, e spesso come un congegno meccanico fatto di ingranaggi senza fine, le cose sono un po’ cambiate. Ora la stanza vuota ha da diventare piena. E gli oggetti che riempono quella stanza non devono essere oggetti qualunque. Devono essere oggetti scelti, oggetti giusti. Oggetti intrisi di vita pregressa o che lasciano presagire vita futura. Sono oggetti intrisi e costituiti da un processo mitopoietico, e chi li possiede, li guarda, ci vive in mezzo, nel loro avere accanto a sé li sente, come presenze dense di storia. In quel giradischi, in quella macchina del caffè sta la possibilità di percepirsi come un’unità di vissuti, e di ricordarsi di non essere un’ombra che cammina catapultata nell’anonimato di uno spazio neutro. È un processo di familiarizzazione, di appropriazione, di ritrovarsi appunto a casa propria… Vivere è bello perché è bello cominciare, certamente. Ma il bel vivere, non come attimo di euforia (stato d’eccezione) ma come essere contento di stare al mondo, e in quel preciso angolo di mondo in cui si è, abbisogna che le cose siano cominciate da un po’. Che poi è un attimo che la familiarizzazione degeneri in insensata abitudine e in consumata ripetizione (quando è difficile salvarsi dalla non-vita!) Se l’alternativa è continuare a nutrirsi di sensazioni, collezionare attimi, questo significa predisporsi all’essere innanzitutto e perlopiù scontenti - la ‘vita’ diventa allora lo stato d’eccezione: forse il passaggio compiuto all’idea adulta sta anche nell’accettazione che la felicità non sia uno stato di perpetua euforia, quasi di estasi.


Nel dire l’altro giorno al fedele rigattiere di Jena che la macchina del caffè mi dà un sacco di Heimat lui inizia a frugare e poi mi porge qualcosa: “ti servirà una zuccheriera”, mi dice, e me ne fa dono. In quel gesto ho sentito una fratellanza interumana potente, e una conseguente fiducia nell’umanità. La logica di un gesto di dono è la stessa che dovrebbe presiedere a quell’amore che, pur dicendosi in molti modi, dovrebbe avere proprio questo come presupposto: gratuità e totale assenza di calcolo, fine in sé, pura liberazione dall’ingranaggio dei mezzi in vista di un tornaconto, emancipazione dalla legge dell’utile, insomma: fiorire come la rosa di Silesio, senza perché. Tutto questo è mortificato dal nostro tempo, certo, ma ci sono spiragli di libertà, o meglio: di grazia (che cos’è infatti la grazia se non la possibilità di sottrarsi ai leviatani perfettamente oleati e onnipervasivi senza sconto alcuno?) Ho sentito il rigattiere, questo tedesco dell’est, settantenne, che sempre mi fa dono non solo di zuccheriere ma di STORIE, storie di fabbriche di porcellana che non ci sono più, di persone e di oggetti trasformati dal corso del tempo (quanto è carico di Heimat quell’uomo! Ci sguazza dentro tutti i giorni della sua vita. Forse pure io sono ‘rigattiere dentro’ e non lo so, e CAZZATENAIF è il mio negozio di rigattiere, colmo di cianfrusaglie interiori datevi in dono), con la fraternità che si potrebbe sentire con un compaesano. E nel luogo apparentemente meno cosmopolita che vi sia, una polverosa bottega di cose vecchie plasmate a km necessariamente zero, ho sentito che Democrito aveva ragione: patria, ovvero, casa dell’uomo è davvero l’intero universo.

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