venerdì 3 giugno 2016

La mia seconda casa

Un amore sperticato per Tubinga in quanto tale, io non l’ho mai avuto.

Le sue casette da gnomini, le sue viuzze così innocenti, i suoi abitanti così sorridenti, neanche una cosa fuori posto – e se c’è, pare che anche lei sia prescritta nell’ordine delle cose. Le loro vite così perfette. Tutto questo per molto tempo mi suonava insincero e distante, tirato come il sorriso di un ballerino.

Non dimenticherò mai l’estraneità di un sabato pomeriggio dell’autunno del 2009, appena arrivato. Percepivo un confuso palpitare di sommessa gioia nell’aria, una gioia molto timida e festante in modo innocente e speranzoso. Ma non era la mia.

Piangevo, da quanto mi sentivo estraneo a tutte quelle case, quelle viuzze, quei sorrisi. L’invincibile alterità di quelle architetture, di quelle pietre e di quegli alberi così diversi dai miei, mi faceva sentire solo più di ogni cosa.

Sono passati più di sei anni da allora. E da quasi tre a Tubinga non ci vivo più. Eppure ci ritorno. E mi piace, adesso, ripercorrerne le strade. Visitandola con la dimestichezza di chi sa dove trovare le cose, e godermela nel suo puro presente, senza nostalgia. Tubinga, chi lo avrebbe mai detto, è diventata la mia seconda casa.

Qui c’è un nucleo di persone che ogni volta mi restituisce la certezza di essere vissuto, e non invano. Mi mostrano in maniera tangibile e perfettamente semplice che sono entrato nelle loro vite.

Me lo testimoniano accompagnandomi alla stazione, aspettando finché il treno non parte, e poi quando si dilegua, correndogli dietro mandandomi saluti tragicamente teneri. O sentendo il bisogno di fare un video mentre dico una battuta delle mie, perché per loro le battute delle mie non sono cazzate, ma sono schegge da raccogliere. O quando ancora m’invitano a cucinare assieme, o quando con la riga del cuscino ancora sulla faccia mi offrono il caffè. Come se quei due anni e mezzo da cui mi sono trasferito non fossero mai passati.

Nell’abbraccio della ragazza più semplice e umorale che mi ha voluto subito bene, nei discorsi sul senso nel nostro stare al mondo con chi invece questo senso lo brama e non ne può fare a meno. Nel sentire interi album o anche solo una canzone al buio in una di quelle stanze, come se avessi di nuovo diciott’anni per cinque o cinquanta lunghi magnifici minuti. Nelle canzoni, che due di loro mi hanno scritto e dedicato per il mio compleanno.

L’ammirazione, che percepisco nel modo in cui mi guardano quando parlo, nonostante il mio tedesco non sia meno goffo di allora. Riconoscono i miei sforzi, godono per i miei successi, e soprattutto mi hanno accolto e amato per quello che sono. Senza dovermi semplificare, senza dovermi far accettare.

Qui c’è l’Amicizia, che percepisco in un congedo in cui sappiamo con certezza che quando ci diciamo “alla prossima” ci sarà certamente una prossima volta. E che presto o tardi sono solo dettagli.

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